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“Liberi di scegliere”, le storie di chi è fuggito dalle famiglie di ‘ndrangheta

Il ragazzo con i proiettili in corpo dopo l’agguato al boss. La mamma che si finge «un po’ pazza» per non destare sospetti. Come cambia la vita di chi rompe con la mafia

Pubblicato il: 11/08/2019 – 13:44
“Liberi di scegliere”, le storie di chi è fuggito dalle famiglie di ‘ndrangheta

Esiste un protocollo che si chiama “Liberi di scegliere”, siglato ad aprile scorso. È stato firmato, tra gli altri, dal tribunale dei minori di Reggio Calabria, presieduto dal giudice Roberto Di Bella, e da una rete di associazioni, tra le quali Libera e Unicef. Il protocollo è un’ancora di salvezza per tutti quei ragazzi e quelle madri che, nati e cresciuti in seno a contesti mafiosi, decidano di allontanarsene e rifarsi una vita. Oggi, da quell’intesa, cominciano a fiorire le prime storie. Un esempio – come racconta l’Espresso nell’articolo di prima pagina di domenica – è la storia di Giorgio (il nome è di fantasia) che il 21 luglio dello scorso anno si trovava in campagna con Fabio Giuseppe Giofrè, detto “Siberia” «ritenuto esponente di vertice dell’omonima cosca» quando nel terreno del boss irrompono due killer e uccidono Giofrè. Giorgio si salva per miracolo ma a ricordagli questa storia saranno i colpi che lo hanno raggiunto al braccio e al torace. Giorgio è uno dei ragazzi salvato dal protocollo “Liberi di scegliere”. Ha testimoniato contro i killer, vive protetto fuori dalla Calabria e ora lo hanno raggiunto anche i genitori.

DANIELA Da aprile ad oggi le storie legate a questo protocollo si susseguono. Alcune le racconta la stessa associazione “Libera” sul proprio sito internet. Daniela (il nome è sempre di fantasia per proteggerne l’identità e quella dei suoi figli) ha dovuto fingersi «un po’ pazza in modo da non farmi più tenere in considerazione». Allontanati i sospetti dei parenti e del clan Daniela è riuscita ad allontanarsi. Suo marito era stato ucciso in un agguato mafioso. «La cosa dolorosa che ho capito è che loro vogliono il nostro controllo totale, fisico e psicologico. Con la mia fuga ho spezzato questo legame, si sono visti mancare questo potere da un giorno all’altro. Non si aspettavano che saremmo andati via».
Daniela prova a partire subito dopo la morte del marito ma non è facile: «Era il 2008 e per due anni avevo provato a partire chiedendo aiuto a diverse parrocchie. Purtroppo nessuno ci è stato di aiuto. Nel 2010, però, ho conosciuto don Luigi (don Luigi Ciotti, presidente di “Libera”, ndr), ho conosciuto Libera che ci ha supportati in tutto: nella nostra partenza e nella nostra riabilitazione, aiutandoci a rieducarci nella civiltà». Ma riconquistare la libertà non è facile dopo essere vissuti in un contesto criminale. «Oggi viviamo – racconta Daniela –, anzi sopravviviamo: ci nascondiamo, non abbiamo la nostra identità e questo ci impedisce di farci sentire persone, ci nega il riconoscimento. Siamo in fuga. A volte i miei figli mi chiedono perché viviamo questa situazione non avendo noi fatto del male. Vi posso assicurare che sono momenti duri e dolorosi, non è facile sopportare quello che ho sopportato. Ma ho sempre difeso i miei figli perché il loro obiettivo era di togliermeli, hanno cercato con tutti i mezzi e in tutti i modi di strapparmeli via. Però grazie a Libera, a questo regalo di vita che ho avuto, posso dire che per adesso ho vinto io».
MONICA Monica – racconta Giovanni Tizian su l’Espresso – si era innamorata di suo marito nel 2006 e con lui ha avuto due figli. Ma non sapeva, in realtà, chi fosse quell’uomo che aveva accanto e che ben presto si era trasformato in un violento e possessivo padrone che l’aveva costretta a smettere di lavorare. «Ha voluto che smettessi di lavorare, mi diceva che non era necessario. E in effetti di soldi ne giravano molti, ma lui era molto tirchio. Gli avevo chiesto da dove venisse quel denaro, ma mi rispondeva “conta e non fare domande”», è la testimonianza di Monica. La giovane moglie era diventata cosa della famiglia di ‘ndrangheta: «“La donna deve stare muta”, diceva mio cognato. Una volta mi ha detto: “se non stai buona, ti ammazzo”… a pensarci bene mi avevano reso una serva». Monica ha conosciuto anche il carcere. Poi, un giorno, è stata convocata dal giudice del tribunale dei minorenni di Reggio Calabria, Roberto Di Bella. «Lì, in quella saletta dove il giudice Di Bella mi attendeva, è diventato tutto più chiaro – racconta Monica –. Fuggire, rifugiarmi, tutelare chi amavo più della mia stessa vita». Così il 26 luglio del 2016 Monica lascia la città in cui ha vissuto, Reggio Calabria. Erano le sei del mattino quando la polizia è arrivata a prenderla per portare lei e i suoi figli in aeroporto. La casa della suocera, dove si era trasferita con i figli dopo l’arresto del marito, era vuota, «erano tutti in carcere».
IL MARITO «Vedrà che appena si sparge la voce, molti detenuti faranno la mia stessa scelta». Non solo le donne, le mogli, le figlie di famiglie di ‘ndrangheta si sono affidati al protocollo “Liberi di scegliere”. Dopo avere scontato 23 anni di carcere un uomo di ‘ndrangheta ha contattato il giudice Di Bella, che in passato aveva allontanato i figli e la moglie, una donna che con le sue accuse aveva contribuito alla condanna del marito. È un’altro dei tanti racconti presenti sull’Espresso. «Ho scontato più della metà della mia vita in galera – dice l’uomo al giudice –, non posso più sopportare il peso di una vita così». Una spaccatura col passato alla quale il tribunale ha deciso di dare fiducia. L’uomo si è allontanato da Reggio e ha già trovato un lavoro. Secondo chi ha seguito il caso, non ha mai smesso di amare sua moglie.

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