di Giorgio Curcio
CATANZARO Accerchiato, guardato a vista dai suoi predatori, fermata dopo fermata. Da Milano fino al capolinea, la stazione di Lamezia Terme. Luigi Mancuso (boss dell’omonima cosca di Limbadi) è stato catturato così, in silenzio. Portato via dagli uomini del Gis, il reparto «d’élite» dei Carabinieri. «Non si è reso conto di cosa stesse accadendo», racconta il procuratore della Dda di Catanzaro, Nicola Gratteri, attraverso una narrazione ricca di tensione e suspense. «Mancuso – dice ancora Gratteri – è dotato di una grande intelligenza criminale. Non è uno stupido, tutt’altro». La stessa “intelligenza” messa al servizio del clan di Limbadi attraverso un piano criminale ben studiato, un ampio progetto di coesione. Ampio perché – nelle sue intenzioni – avrebbe dovuto coinvolgere la propria famiglia, ma anche tutte le ‘ndrine operanti nel territorio di Vibo Valentia. Per gli investigatori, dunque, l’idea di Luigi Mancuso era di “rinsaldare” i rapporti interni ed esterni della cosca. Un piano ambizioso ma che restituisce di Luigi Mancuso l’immagine di un boss carismatico e intraprendente e che – con astuzia – aveva ben capito che guerre e risse avrebbero continuato ad alimentare i dissidi tra famiglie, rischiando di mettere a repentaglio la solidità del gruppo criminale e, di fatto, gli affari.
IL PROGETTO DI PACE Rientra dunque in questo quadro strategico la rinnovata “alleanza” con le storiche ‘ndrine “satellite come i Barba-Lo Bianco, i La Rosa e gli Accorinti oppure le strette relazioni con le più importanti cosche del territorio come Razionale-Gasparro di San Gregorio d’Ippona e la pace con la famiglia Bonavota di Sant’Onofrio. Un ruolo indiscusso quello di Luigi Mancuso anche nel periodo della sua irreperibilità. Mancuso, infatti, avrebbe continuato ad incontrare i sodali e gli appartenenti alle altre consorterie del territorio calabrese, curando in prima persona gli affari della cosca, contando anche su alcune figure di fiducia come Pasquale Gallone, Giovanni Giamborino e l’avvocato Giancarlo Pittelli.
I CONTRASTI CON ACCORINTI A minare il progetto di “pace” ideato da Luigi Mancuso, il boss Giuseppe Accorinti e le attività portate avanti insieme a Mommo Macrì e Filippo Orecchio. Secondo le dichiarazioni del collaboratore di giustizia Bartolomeo Arena (storico appartenente alla ‘ndrina Ranisi), sarebbero stati proprio Macrì e Orecchio (con il benestare di Accorinti) a sparare all’inizio del 2019 contro alcune attività commerciali del vibonese, tra le quali la sede Bartolini nella zona di Vena e quella della “Stocco&Stocco”. Azioni che avrebbero infastidito proprio Luigi Mancuso che – secondo lo stesso Arena – «vantava già accordi estorsivi su quella zona e in quel territorio, siglati con alcuni esponenti del clan Bellocco i quali, a loro volta, avevano interessi in quella porzione di territorio vibonese».
I CLAN REGGINI I rapporti con i clan operanti nel territorio reggino (Coluccio di Siderno, Alvaro e Polimeno di Sinopoli), secondo gli investigatori, erano ben consolidati da tempo, anche quando Luigi Mancuso era irreperibile, ovvero dal 26 giugno 2014 fino al 12 agosto 2017. Dai faldoni dell’inchiesta, infatti, sarebbe emerso come i rapporti con il crimine reggino, che non si limitano alla commissione di reati e a cointeressenze puramente criminali, sarebbero stati favoriti dai sodali di fiducia del gruppo, tra cui Gianfranco Ferrante, Emanuele La Malia, Gaetano Molino, tutti indagati e legati alla cosca di Limbadi.
IL TUTTO FARE RIZZO In particolare, i contatti con i Piromalli erano mediati, da Gioia Tauro, da Domenico Cangemi (già condannato per associazione mafiosa). Ma il vero “collante” – si legge nelle carte dell’inchiesta – era Giuseppe Rizzo (classe ’82), pronto a favorire materialmente gli incontri tra le cosche reggine (in particolare i Coluccio) e “zio Luigi”. Rizzo – secondo le indagini – era oltre che associato, il vero uomo di fiducia di Luigi Mancuso. «Siamo in dieci e in quei dieci ci sono anche io», avrebbe detto qualche giorno prima di partire da Milano e tornare stabilmente a Nicotera alla “corte” del clan Mancuso nel maggio del 2013.
IL CERCHIO MAGICO E GLI INCONTRI Un vero e proprio cerchio “magico”, fondamentale per il disegno criminale di Luigi Mancuso. I componenti – è scritto nelle carte dell’inchiesta – si riunivano spesso. Come in occasione dell’incontro organizzato il 6 novembre 2016 presso l’abitazione di Gaetano Molino tra Luigi Mancuso, Rocco Delfino, Domenico Cangemi, Francesco Sabatino, Pasquale Gallone, lo stesso Molino e un uomo non identificato. Un summit intervallato da un pranzo, portato dalle “donne” dei boss come Rosalba Perfidio, moglie di Gallone, Rosaria Zinnato, moglie di Luigi Mancuso e Teresa Molino. Con le solite accortezze (spostamenti intervallati e auto parcheggiate in luoghi lontani dagli incontri) gli investigatori hanno poi documentato un altro incontro, avvenuto sempre a casa di Gaetano Molino tra Luigi Mancuso, Molino, Pasquale Gallone, Domenico Cangemi e Pantaleone Mancuso “l’ingegnere”. Riunioni che servivano ad alimentare i rapporti tra i capi. Luigi Mancuso, dunque, sfruttando la rete di fidatissimi sodali, anche appartenenti alle cosche reggine (come Cangemi) e la lealtà dei propri uomini fidati, impostava le proprie direttive insieme ai capi cosca di altre consorterie, in strettissimo contatto con quella di Limbadi. (redazione@corrierecal.it)
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