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«Lo smart working diventa un benefit?»
di Giusy Raffaele
Pubblicato il: 24/12/2020 – 14:02
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Erano partiti con le migliori intenzioni (complice l’emergenza sanitaria) sul tema dello smart working ma l’impressione che si ha nel leggere le recenti dichiarazioni del ministro della Funzione pubblica è di assistere ad un passo indietro, giustificato scomodando i principi dell’efficienza e della produttività della macchina statale. E sì, perchè non bastavano le valutazioni delle perfomance volute nel 2009 dall’On. Brunetta (che fantasticava sull’ipotesi di introdurre nella PA il principio della carriera per merito) per appesantire di cartuccelle inutili le attività dei ministeri, diventati dei veri e propri “cartifici”, perdendo di vista le vere funzioni istituzionali degli apparati statali. Ora si dà il benvenuto alle pagelline degli smart workers considerati dai più come i “furbetti da divano”. Nel frattempo l’ideale utopistico della “carriera per merito” si è perso per strada per lasciare il posto a funzionari nominati sic et simpliciter dirigenti da alti burocrati compiacenti che premiano a volte chi si è distinto per “immobilismo lavorativo” senza considerare le reali competenze e capacità manageriali.
Tornando al discorso “pagelle”, tra i tanti indicatori utilizzati per valutare la produttività del lavoratore agile si sta pensando di inserire parametri del tipo: quanto tempo impieghi per evadere una pratica? E per rispondere ad una e-mail? Quanti utenti hai servito nella giornata lavorativa? Perché la qualità (secondo qualcuno) è una questione di numeri, la sostanza è un dettaglio irrilevante. Se produci tante carte allora forse sei un bravo servitore dello Stato e il premio che ti spetta è poter continuare a lavorare da casa, in pratica una variante pentastellata del lavoro a cottimo. In caso contrario rischi la punizione: il ritorno in ufficio, quel luogo magico dove per incanto il lavoratore fannullone migliorerà le sue prestazioni lavorative. Una riflessione è doverosa: lo scarso rendimento è sempre da addebitare al lavoratore o magari ad un’incapacità di una parte della classe dirigente di coordinare e vigilare con autorevolezza (dote sconosciuta ai più)? C’è da dire che chi conosce bene il mondo della pubblica amministrazione è consapevole che spesso il personale è incardinato in questo o quell’ufficio senza un criterio che tenga conto della sua formazione e delle sue competenze specifiche ma viene incasellato secondo dei criteri casuali per coprire dei vuoti, supplire a carenze organiche o peggio ancora sulla base di decisioni arbitrarie da parte dei vertici direttoriali a cui interessa molto poco del buon funzionamento della macchina burocratica. E allora perché colpevolizzare sempre e comunque il dipendente pubblico? Se proprio è necessario introdurre delle pagelle sarebbe opportuno sottoporre ad una valutazione la classe dirigente e l’alta burocrazia, che (salvo rare eccezioni) rappresenta la vera causa dell’inefficienza e dei ritardi degli apparati amministrativi. Ma chi avrà mai la volontà e il coraggio di mettere in discussione i veri “garantiti”, gli inamovibili della PA?
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