REGGIO CALABRIA Ciascuno per la sua parte, i clan reggini «hanno scientemente alimentato il perverso circuito mafioso che da decenni funesta il territorio reggino, soffocato dal clima di omertà e reticenza e limitato nella crescita economica per effetto del sistematico ricorso alla pratica del racket». Il gip distrettuale di Reggio Calabria Tommasina Cotroneo ha parole durissime per gli esponenti delle cosche storiche colpite dall’inchiesta “Metameria” della Dda: «Si tratta dei massimi responsabili di quella cappa di asfissiante illegalità che da decenni incombe sulla città di Reggio Calabria e sul suo hinterland, determinandone l’inesorabile decadimento culturale, sociale ed economico». Il ragionamento del giudice si dipana nell’ordinanza di custodia cautelare che ha portato in carcere 25 persone. Ed evidenzia proprio gli aspetti che riguardano l’opportunità di ricorrere alle misure più restrittive. Perché, tra le altre cose, «le conversazioni intercettate documentano una non tranquillizzante attitudine alla violenza». Le parole pronunciate da Filippo Barreca, il boss tornato nel quartiere per riorganizzare la sua ‘ndrina, non lasciano adito a interpretazioni. Quando c’è da convincere gli imprenditori a «piegarsi ai suoi voleri», il capoclan non ha dubbi: «Se non gli facciamo qualcosa a ‘sta gente, non se ne aggiustano cose ragazzi. (…) La devono finire le persone, che qua per ora si sono presi di confidenza». La proposta? «Di giorno un furgone di quelli… uno passa con un poco di benzina, gliela butta dentro e se ne va. E si brucia mezzi».
Metodi spicci, che diventano «radicali» se pensati «per scongiurare intenti collaborativi da parte delle “mele marce”» nelle cosche. Lo spiega Antonino Esposito, presunto armiere del clan con il compito di «mantenere l’ordine pubblico nel territorio»: «La Madonna della Montagna il marcio bisogna toglierlo subito. Voi ci siete passato, capite com’è la situazione. Queste persone bisogna eliminarle, toglierle da mezzo alle palle… la pistola subito davanti alla testa».
Il giudice per le indagini preliminari analizza anche l’aspetto del trasferimento a Milano di alcuni presunti ‘ndranghetisti. Fatto che «accentua il pericolo di recidiva». Le organizzazioni criminali avrebbe, infatti, «in Lombardia specifici interessi criminali. Basti pensare a quanto rappresentato da Giovanni Fracapane», vicino al gruppo De Stefano, «circa la presenza a Milano di Giorgio De Stefano, che vi gestisce gli affari della comune cosca nel Nord Italia; e altrettanto dicasi per Bellini, delegato da Filippo Barreca ad avviare, proprio nel Milanese, un proficuo canale di approvvigionamento di sostanze stupefacenti».
È Reggio Calabria, però, il luogo in cui tutto si tiene. Ed è lì che Filippo Barreca, «pluripregiudicato, responsabile di omicidi e per questo già condannato all’ergastolo» torna per riacquistare il controllo del territorio con «bramosia delinquenziale che il tempo sembra aver amplificato». Per farlo, Barreca strumentalizza «le sue patologie» e viola «sistematicamente le prescrizioni della detenzione domiciliare». Negli anni, ha «mantenuto rapporti con il gotha della ‘ndrangheta reggina e ha imposto il pizzo come regola generalizzata per imprenditori e commercianti del “suo” comprensorio, facendo sprofondare Pellaro in quella cappa di asfissiante illegalità che già negli anni 80 egli stesso aveva cagionato». Un ritorno a un passato oscuro con gli stessi protagonisti di 40 anni fa. I nemici di Reggio, quelli veri. (p.petrasso@corrierecal.it)
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