CATANZARO Una gestione di quantitativi “apprezzabili” di droga provenienti da «contesti delinquenziali di elevato spessore ‘ndranghetistico». È questo il quadro delineato dagli inquirenti e che hanno portato all’operazione “Anteo”, coordinata dalla Dda della Procura di Catanzaro, guidata da Nicola Gratteri, e all’emissione di 30 misure cautelari. A guidare il gruppo c’erano i fratelli Fabiano, Damiano e Giuseppe, entrambi finiti in carcere, vicini al clan di ‘ndrangheta Procopio-Mongiardo di San Sostene. Giuseppe Fabiano, infatti, è il marito di Antonella Procopio (anche lei tra gli indagati e finita ai domiciliari), figlia di Giuseppe già gravato da numerosi reati e precedenti penali e cugino di Gerardo Procopio, ritenuto al vertice dell’omonimo clan.
Di grande rilievo sono però anche i rapporti instaurati con un altro elemento di spicco della ‘ndrangheta calabrese ovvero Emanuele Mancuso, classe ’88, figlio del boss Pantaleone “l’Ingegnere”, nei confronti del quale non è stata avanzata alcuna richiesta cautelare. Dopo il suo arresto avvenuto nel corso dell’operazione “Nemea”, Emanuele Mancuso decide di collaborare con la giustizia dal giugno del 2018 e racconta anche i rapporti intrattenuti proprio con i fratelli Fabiano, trascritti in buona parte nell’ordinanza firmata dal gip del Tribunale di Catanzaro, Gaia Sorrentino.
In particolare, nel corso dell’interrogatorio del 26 luglio 2018, Mancuso traccia i rapporti con il gruppo criminale capeggiato dai due fratelli, con il quale riferisce di aver interagito già prima del suo arresto, a partire da settembre 2017. Dato che ha trovato effettivo riscontro in una sorta di “libro mastro” rinvenuto nel corso di un sequestro avvenuto il 21 aprile 2018 nelle proprietà di Damiano Fabiano. Un documento ritenuto fondamentale – è scritto nell’ordinanza – anche perché al suo interno sono riportati numerosi episodi di cessione di droga e annotazioni accompagnate dalla dicitura “SLD IN ARRIV” e “SLD IN USCITA”, fino al 30 novembre 2017.
Ma il collaboratore Emanuele Mancuso descrive anche quella che è stata l’origine dei rapporti con i fratelli Fabiano, collocata dallo stesso Mancuso a cominciare dal settembre 2017, quando Damiano e Giuseppe, introdotti da Daniele Cortese (anche lui finito in carcere) si erano presentato con del denaro per acquistare diversi quantitativi di cocaina. Dopo essersi incontrati a Gioia Tauro, avevano raggiunto Nicotera, nel Vibonese, per incontrare Giuseppe Soriano per la cessione della droga. «Si presero 50 grammi – racconta Mancuso – e restarono scontenti, poi successivamente vennero con me, con due macchine e vennero Daniele Cortese e come un ragazzo che ha Capistrano è soprannominato “Tizzuni”.
Ma non è tutto. Il collaboratore Emanuele Mancuso racconta, nel corso dell’interrogatorio, anche altri dettagli che riguardano il primo incontro avuto con i fratelli Fabiano: «I Fabiano risultavano già inseriti nelle dinamiche di traffico di stupefacenti e di altre attività criminali ancor prima dei miei rapporti per come riferito, iniziati tramite Daniele Cortese. Ritengo che lo stesso Cortese abbia ceduto ai Fabiano prima dell’inizio dei rapporti con me. Lo deduco dal fatto che li ho visti presentarsi con Cortese la prima volta al Bingo già con i soldi in mano per acquistare lo stupefacente». Cortese, ritenuto un vero e proprio intermediario al quale spettava anche una percentuale per la sua attività, era stato poi estromesso dagli affari. Mancuso ha specificato poi nel corso dell’interrogatorio come il prezzo praticato fosse particolarmente elevato. «Assai.. proprio assai.. li ho massacrati. A 70 (euro ndr) gliel’ho data (…) il debito era assai».
Dopo quella prima cessione ritenuta “deludente” dai fratelli Fabiano, Mancuso ha raccontato che aveva rassicurato i due fratelli in merito al fatto che sarebbe stato lui a procurargli un “cospicuo” quantitativo di stupefacente e li avrebbe contattati per andare a ritirarlo. «A Nicotera non ci fu la disponibilità perché era tardi (…) da Peppe Soriano (…) hanno preso quei 30-50 grammi». «Ah quella volta che sono venuti a Gioia Tauro, al primo incontro, loro (i fratelli Fabiano ndr) sono venuti a versare una somma di denaro nei confronti di Cortese, per un debito contratto con la marijuana (…) ammontava tra i mille e i 1.200 euro e me ne diedero 600 a me. E poi la palla passò tutta a me».
Quelle del collaboratore sono ricostruzioni che gli inquirenti hanno effettivamente accertate grazie ai riscontri tecnici: a novembre 2017, infatti, risulta che l’auto di Mancuso era stata portata più volte presso un’officina Audi di Gioia Tauro, così come confermato anche dall’analisi delle celle telefoniche e l’utenza di Giuseppe Fabiano, oltre alle conversazioni captate dagli inquirenti tra i due Fabiano e la madre.
Quello tra i fratelli Fabiano e il collaboratore, Emanuele Mancuso, era però un rapporto di “collaborazione” e non di associazione. Questo almeno è quanto ha precisato lo stesso pentito nel corso dell’interrogatorio, raccontando solo di alcuni episodi di cessione di droga ma senza che ci fosse un vero sodalizio criminale. «Sì. Io però tengo a far presente che tra me e Fabiano non c’è stato alcun accordo di tipo fornitura.. c’è stato solo uno scambio di stupefacente che poi è divenuto un secondo scambio di stupefacente, che poi è divenuto un terzo scambio di stupefacente. Ma questo rapporto non era legato, che io ero legato a Fabiano come diversamente da Ascone, perché con Ascone io mi sento un associato, con Fabiano io… io non mi sento niente. Fabiano aveva un gruppo associato… No, no dottoressa, non sto scherzando (…) intendo precisare di non aver preso con i Fabiano alcun accordo in ordine ad una fornitura in quanto i miei rapporti si sono limitati a singoli episodi di cessione e scambio di stupefacenti». (redazione@corrierecal.it)
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