«Per salvare il Ddl Zan serve coraggio»
Il dibattito di questi giorni sul Ddl Zan ha il forte limite di polarizzare l’opinione pubblica su uno scontro puramente ideologico tra sostenitori e detrattori della proposta e di perdere di vista l…

Il dibattito di questi giorni sul Ddl Zan ha il forte limite di polarizzare l’opinione pubblica su uno scontro puramente ideologico tra sostenitori e detrattori della proposta e di perdere di vista lo scopo effettivo della legge, che dovrebbe prevenire e combattere le discriminazioni contro omosessuali, bisessuali, transessuali e disabili attraverso l’inasprimento delle pene e promuovere la cultura del rispetto e dell’inclusione delle minoranze. Ma per combattere tali discriminazioni bisognerebbe verificare se gli effettivi destinatari della norma così come è scritta siano a tutti gli effetti rappresentati ed evitare di creare altre minoranze. E per fare questo il confronto tra le parti interessate è fondamentale per quella che è stata a ragione definita una “legge di civiltà”. Se si parte dall’assunto che i diritti civili non sono né di destra né di sinistra, è necessario mettere da parte quella spocchiosa autoreferenzialità di cui purtroppo soffre il PD – che lo porta ad accettare il rischio del voto segreto e dei probabili franchi tiratori – e cercare un consenso ampio che sia espressione di una civiltà democratica e coraggiosa.
L’argomento è divisivo addirittura all’interno della comunità Lgbt che il Ddl Zan dovrebbe proteggere. Riconoscere che l’approccio normativo utilizzato è stato un po’ troppo semplicistico non equivale a sabotare la proposta di legge ma a volerla rafforzare per evitare l’ “effetto contentino” che si è avuto con la legge Cirinnà le cui lacune e disparità a distanza di anni non sono state ancora colmate. Così come sembra azzardato definire sulla falsariga di un elenco telefonico i concetti di “genere”, “orientamento sessuale” e “identità di genere” ed inserire l’espressione sesso (inteso come biologico o anagrafico) che fa pensare alle donne come categorie sociali di minoranza da tutelare e suggerirebbe giustamente anche agli uomini di sentirsi discriminati ed invocare le eventuali tutele previste in quanto uomini. Gli elenchi e le categorizzazioni di concetti indeterminati nel diritto penale non sempre funzionano. Quanti problemi di interpretazione ed applicazione potrebbe creare l’inserimento della definizione di identità di genere, catalogata come «identificazione percepita e manifestata di sé in relazione al genere, anche se non corrispondente al sesso, indipendentemente dall’aver concluso un percorso di transizione». Mi chiedo quale sarà la chiave di lettura che consentirà ad un giudice di stabilire quando si istiga a compiere o si compie un atto di discriminazione per motivi fondati sull’identità “percepita”? E poi c’è l’articolo 4 così titolato “Pluralismo delle idee e libertà di scelte” che sembra introdurre una sorta di clausola di salvaguardia, facendo salve “la libera espressione di convincimenti od opinioni nonché le condotte legittime riconducibili al pluralismo delle idee o alla libertà delle scelte, purché non idonee a determinare il concreto pericolo del compimento di atti discriminatori o violenti”. Forse l’on. Zan ha dimenticato che il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione è uno dei pilastri fondamentali dell’ordinamento italiano, ce lo ricorda l’art.21 della Carta Costituzionale. E allora era proprio utile ripetere un principio già acquisito?