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Elogio della pigrizia. Scritto da un iperattivo

Confesso: dormo poco e male; i pensieri vanno a mille; faccio talmente tante cose che talvolta dimentico di averle fatte; scrivo e parlo troppo. Eppure, non ce l’ho affatto con chi dorme più ore di q…

Pubblicato il: 03/07/2021 – 7:27
di Francesco Bevilacqua
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Elogio della pigrizia. Scritto da un iperattivo

Confesso: dormo poco e male; i pensieri vanno a mille; faccio talmente tante cose che talvolta dimentico di averle fatte; scrivo e parlo troppo. Eppure, non ce l’ho affatto con chi dorme più ore di quanto sta sveglio, scaccia i pensieri molesti, fa poco o nulla, scrive e dice solo se costretto. Sono, insomma, un iperattivo che non ha pregiudizi verso i pigri. Anzi credo che i pigri siano essenziali nell’economia della specie umana, che rappresentino un fatto fisiologico e non patologico delle moderne società produttivistiche e consumistiche, che vivano molto meglio di noi iperattivi, che la Terra, senza di loro, sarebbe una specie di colonia penale di condannati ai lavori forzati. Il mondo è bello perché è vario! E alla biodiversità dovrà pur corrispondere una differenza di tipi psicologici. Se fossimo tutti uguali, efficienti, competitivi, rosi dal tarlo del fare, sarebbe un gran casino, una specie di guerra senza fine: tutti capitani d’industria, tutti a far soldi, tutti in concorrenza, tutti ad innovare e competere. Quanto è sorprendente, invece, scoprire la dimensione spazio-tempo di un uomo su un asino, che percorre lentamente una solitaria strada di campagna! O quella di una donna che sferruzza chiacchierando con una vicina sull’uscio di casa. Ho goduto, qualche giorno fa, quando è apparsa la foto dell’anziano signore a torso nudo che osserva dal balcone, con pigro disincanto, gli iperattivi del G20 a Matera! Ora, io lo so che se tutti fossero pigri, dovremmo dire addio alla bella vita, al benessere, all’abbondanza di merci. Ciò nondimeno mi chiedo se sia giusto vagheggiare un mondo in cui i pigri non abbiano cittadinanza, siano messi ai margini, ovvero, con un progetto che rasenta l’eugenetica, siano costretti a non tramandare più i loro geni.

Così si farebbe a meno, secondo la vulgata neoliberista, di welfare, redditi di cittadinanza, sussidi economici per i poveri. Senza essere costretti a fingere ipocritamente di combattere le disuguaglianze e redistribuire la ricchezza. Ormai ne sono certo: a me piacerebbe un mondo di pigri, dove si lavora quanto basta per campare, si gioca, ci si diverte, si fa l’amore e, soprattutto, si riposa per tutto il resto del tempo. E dove gli iperattivi come me siano sottoposti a cure psicologiche per darsi una calmata. Possiamo farcela! Al governo c’è il grande iperattivo Draghi. E ci sono i miliardi del recovery fund . Volendo, possiamo trasformare la Calabria – e forse l’intero Sud – in una grande casa di cura per tutti quelli come me che si son rotti di sbattersi ogni giorno. Sarebbe la miglior strategia di sviluppo sostenibile! Esiste una vasta letteratura sulla pigrizia e sull’ozio: Seneca ha scritto un “De otio”; Bertrand Russel un “Elogio dell’ozio”, Jacques Leclerq un “Elogio della pigrizia”, Tom Odgkinson “L’ozio come stile di vita”, Armando Torno “Le virtù dell’ozio”, Maria Serena Palieri, “Ozio creativo” etc. Qualche anno fa, Luigi Zoja, in “Utopie minimaliste”, ha ricordato l’acronimo con il quale si definiscono i pigri del nostro tempo: “neet” (not in empoyment, education, or training). Zoja riferisce come la sociologia economica consideri i neet il nuovo “male” delle società avanzate. Si tratta per lo più di giovani che hanno brillantemente compiuto gli studi superiori, ma che neppure cercano un impiego. Scrive polemicamente Zoja: “La carica critica di questa nuova generazione costituisce una vera e propria riserva culturale della intera società […]. Questi giovani non solo non affidano la propria identità ad una bella automobile, ma le preferiscono la bicicletta; padroneggiano con disinvoltura il computer ma – quando è possibile e quando il contenuto è per loro importante – scrivono su carta. Forse, senza esser ben coscienti di farlo, stanno costruendo una alternativa alla fretta delle nostre tendenze più malate che merita il nome di slow culture […]. Anche se non scenderanno in piazza, però, con la loro persistenza potrebbero giungere alla dimensione di massa critica”. Jacques Leclerq domandava, caustico: “Avete notato che, per ammirare, occorre fermarsi? E per pensare, pure?”

*Avvocato e scrittore

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