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«Nessuna paura del fucile! Quando uccisero Giuditta Levato»

Il 28 novembre del 1946 Giuditta Levato, 31 anni, fu colpita al ventre da un colpo di fucile mentre difendeva il diritto alla terra a Calabricata (oggi frazione di Sellia Marina).Morì nell’Ospedal…

Pubblicato il: 27/07/2021 – 11:33
di Romano Pitaro
«Nessuna paura del fucile! Quando uccisero Giuditta Levato»

Il 28 novembre del 1946 Giuditta Levato, 31 anni, fu colpita al ventre da un colpo di fucile mentre difendeva il diritto alla terra a Calabricata (oggi frazione di Sellia Marina).
Morì nell’Ospedale di Catanzaro fra atroci dolori e il prete le negò l’estrema unzione per via delle troppe bandiere rosse. Due anni dopo, i giudici assolsero l’agrario e il campiere. Come se il colpevole fosse stato il fucile.
Anche della funzione repressiva della magistratura nei confronti del movimento contadino che si batteva contro il latifondo, si discuterà – mercoledì a Calabricata – nel corso della presentazione del libro “Storie di lotte e di anarchia in Calabria” (edito da Donzelli). Dieci storie di ribellione attraverso dieci firme coordinate dallo storico Piero Bevilacqua e arricchite da un’originale ricerca musicale della cantastorie Francesca Prestia.
I disoccupati del nostro tempo neanche se la ricordano quella donna. Ma, guarda caso, anche lei chiedeva di lavorare. Donna, giovane. Tutt’altro che rassegnata. Il lavoro, come oggi, è sempre stata una bestia difficile in Calabria e nell’Italia del Sud, benché la Costituzione sia fondata sul lavoro. Che rende liberi. Se non c’è il lavoro, ogni altro diritto rimane appeso.
Sul lavoro negato si può ricostruire una storia dell’Italia che forse indurrebbe le classi dirigenti a essere meno distratte. L’enfasi sul Recovery Plan, una sorta di salvataggio dell’Europa che prima delle pandemia era suggestionata dal liberismo hard e picchiava duro sui popoli, avrà un senso nel Mezzogiorno se prosciugherà l’enorme bacino di disoccupati e porrà fine allo scandalo del precariato. Non si scappa.
S’erano verificati centinai di soprusi ai danni dei contadini nell’era dei baroni. Ma l’omicidio non era ancora diventato lo strumento per affermare l’intangibilità della proprietà privata. Mentre Giuditta Levato andava per fermare l’agrario che intendeva impedire l’assegnazione del fondo alla cooperativa “Unione e Libertà”, in Calabria regnavano i Barracco, i Berlingieri, i Gallucci, i Gaetani. Da secoli dettavano legge.
Ogni cosa recava i loro nomi: il segno visivo di un potere assoluto. Non era possibile, per i contadini, neanche avvicinarli. Il colloquio poteva avvenire attraverso intermediari: “E’ più facile parlare con Dio che col barone Barracco” dice un contadino a Giovanni Russo in un libro-viaggio del 1949 intitolato “Baroni e contadini”.
Ma qualcosa stava accadendo il 1946. Intorno alla giovane donna di Calabricata c’era il frastuono eccitato. La terra l’avevano avuta e ora l’agrario, convinto che “ la riforma è una rovina, un furto”, opponeva resistenza. Il grilletto del fucile portato sul fondo “del Biviere” dal campiere, a un certo punto fu premuto. Un lampo e la giovane donna senti il dolore acuto che dalla pancia si diffondeva in ogni fibra.
Quando si legge l’articolo 42 della Costituzione (votata il 22 dicembre 1947) sulla proprietà, ove si riconoscono i suoi limiti “allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti”, non si può fare a meno di riandare a quelle giornate di ribellione che infiammarono il Mezzogiorno. Al sacrificio di quella giovane donna.
La guerra era finita da poco e il fascismo seppellito. Giuditta era incinta e madre di due figli, ma non poteva starsene a casa quel giorno. La terra era lì, a portata di mano e di zappa. Quella terra che sognava da una vita, il sogno di intere generazioni di contadini, stava per essere assegnata dallo Stato (ministro dell’agricoltura il comunista Fausto Gullo) alla cooperativa di Calabricata. Ma quel proprietario si ostinava a non mollare.
Lei aveva fiutato il vento della storia. Occorreva resistere. Insieme ce l’avrebbero fatta. Invece il colpo di fucile fu la risposta bestiale del latifondo calabrese all’orgoglio contadino, che qualche mese prima era tracimato, festante, nelle campagne del Marchesato.
Quel periodo di lotte contadine ( 1943-1953) segnate a Calabricata da un assassinio – scrisse Paolo Cinanni in un suo memorabile saggio – si concluse con il fallimento della riforma agraria e l’esodo di massa obbligatorio per milioni di contadini disillusi che finirono nei “ghetti dell’immigrazione”.
Il tentativo di Gullo di riformare l’agricoltura meridionale era abortito. Il nuovo ministro dell’agricoltura, il democristiano Antonio Segni agevolò la grande proprietà e attraverso una serie di scelte legislative “e in un clima d’ indifferenza premeditata del Governo verso le esigenze dei cafoni del Sud, parti l’offensiva dei proprietari terrieri contro le cooperative contadine”.
Molta della terra conquistata nell’inverno del 1946 e del 1947 fu perduta l’anno successivo. Fu recuperata dagli agrari la terra migliore.
Nel 1954 l’inchiesta parlamentare sulla miseria nel Meridione mise in luce che l’85 per cento delle famiglie povere si trovava al Sud, con Calabria e Basilicata ai primissimi posti .Il reddito pro capite, fatta 100 la media nazionale, era di 174 in Piemonte e di 52 in Calabria. L’80 per cento dei comuni calabresi era senza edifici scolastici o aveva scuole sistemate in edifici malsani e pericolanti, l’85 per cento dei comuni non aveva canali di scolo e acquedotti insufficienti . Per ogni 1500 abitanti vi era un solo posto letto negli ospedali. Il 45 per cento della popolazione era analfabeta.
Tra il 1949 e il 1955 le speranza di un cambiamento per il movimento contadino erano incentrate sulla riforma agraria e la Cassa per il Mezzogiorno. Ma la prima si sgonfiò immediatamente e la Cassa – commenta Russo in una recente prefazione al suo libro – “dopo aver creato dighe, strade , ponti ed acquedotti, ha investito buona parte dei 100 mila miliardi fino alle metà degli anni ’80 nella industrializzazione senza sviluppo”.
Dalla conclusione delle lotte contadini, prese inizio l’enorme contributo di fatica dato dai meridionali a tutte le Nazioni. Nelle opere pubbliche più imponenti hanno speso energie e sudore. Hanno vissuto in tutte le periferie del mondo industrializzato, nelle baracche svizzere e nei cantieri dei grattacieli di New York.
Oggi che moltissimi di quei contadini emigrati vantano figli illustri inclusi nelle grandi società capitalistiche di cui sono diventati esponenti importanti, assistiamo al riacutizzarsi della questione meridionale. Al punto che non sarebbe blasfemo affermare l’inutilità del sacrificio di Giuditta Levato, delle vittime dell’eccidio di Melissa (1949) , degli uccisi nella strage di Portella della Ginestra (1947).
Come allora, l’esigenza di un riequilibrio del rapporto Nord/Sud presenta tratti drammatici, al punto che il premier Draghi da Governatore della Banca d’Italia, ebbe a dire che “Se il divario tra Nord e Sud non viene colmato il Paese intero soffre”. Ma all’analisi non subentrano conseguenze tangibili.
I termini della questione sono naturalmente mutati. Alla fame dei contadini di allora è subentrato “ l’urbanesimo malato” delle grandi città del Sud ( Napoli, Reggio Calabria, Palermo). “La piaga del Sud coincide”, come asserisce Rosario Villari, “con la disoccupazione giovanile” e, insieme, “col suo patrimonio di cervelli costretto a fuggire perché nel Sud, in gran parte di esso, non ci sono prospettive. C’è, inoltre, una pericolosa crisi delle istituzioni cui si accompagna la debolezza della società civile i cui pezzi migliori ( comprese le cosiddette “minoranza combattive”) sono minacciati, o tenuti sotto scacco dalla criminalità organizzata.
Nonostante la tenacia con cui donne come Giuditta Levato hanno provato a mutare il corso della storia, i problemi del Mezzogiorno sono, in buona parte, rimasti senza risposta. E si avverte un’ assenza di peso specifico del Mezzogiorno nella vita del Paese. Il Sud conta poco nelle scelte più importanti. Non sono mai stati aggrediti i fattori reali dell’arretratezza del Mezzogiorno, i nodi strutturali, che s’ identificano, perlopiù, con la povertà tecnologica e istituzionale.
Quel mondo dei contadini del Sud “serrato nel dolore e negli usi, negato alla storia e allo Stato, eternamente paziente”, come lo dipinge Carlo Levi, s’era infine svegliato. S’era messo contro i baroni. Disposto a sconfiggere “lo sconsolato senso d’inferiorità”. Si è messo in discussione respingendo ogni fatalismo e dando spazio al protagonismo dei singoli individui.
Questo, in estrema sintesi, il messaggio della contadina di Calabricata che si può cogliere dalla sua personale tragedia ed in tutto ciò che lei simboleggia.
Quel mondo del Sud dell’Italia non bisogna dimenticarlo. C’è anzi da fare una meticolosa ricucitura dei tanti strappi storici che si sono verificati. Per indicare, con lucidità, gli argomenti che sono, ancora oggi, sintetizzabili nella immarcescibile “questione meridionale”. Perché, nonostante le toccanti espressioni di Levi non siano più attuali, spesso siamo costretti a prendere atto che non è mutata l’atmosfera cupa di quel periodo.
Una parte del Paese subisce la mafia ( ed avverte poco la presenza dello Stato), la disoccupazione generalizzata e lo sviluppo senza modernità. Anche oggi la maggior parte delle famiglie povere risiede in Calabria. Ma soprattutto soffre una solitudine accentuata dall’assenza di un serio dibattito nazionale sulle sorti del Sud che possa suscitare una forte presa di posizione politica, economica, sociale, commisurata alla gravità dei problemi.
Riflettere sull’epopea delle lotte contadine sarebbe utile anche per liberare il dibattito politico dall’infinità di sciocchezze e dall’esasperato tatticismo senza scopo che lo contraddistinguono. Cinanni pensava che quelle lotte contadine dovessero avere una valenza “progettuale”. Servire a una più complessiva rinascita del Sud. Riteneva che la lotta per l’occupazione delle terre dovesse diventare funzionale a un raccordo del Mezzogiorno col resto del Paese, col Nord industriale e operaio, nell’ottica di una “effettiva unificazione delle due Italie”, ma il Pci non se la sentì di spingere più di tanto su quel versante. Quelli del “centro”, peraltro, erano refrattari a riconoscere una “specificità” meridionale nell’ambito delle lotte operaie e contadine, pensando anzitutto a una dimensione nazionale della lotta di classe.
Questa diversità di veduta sul ruolo delle classi subalterne del Sud sarà alla base di non poche incomprensioni tra Cinanni e il partito. E con Giorgio Amendola in specie, che liquida Cinanni così: «Testardo e cocciuto nelle discussioni, puntiglioso e suscettibile, ha finito per questo suo difficile carattere col non essere sempre apprezzato come meritava».
Testardo e cocciuto (fino alla sua esclusione dal comitato centrale del Pci qualche anno dopo l’annientamento delle masse contadine del Sud), forse per avere prefigurato ciò che successivamente Pasolini, con sotto gli occhi la disintegrazione della civiltà contadina, definì “un genocidio culturale” e che per il Sud ha coinciso con l’imposizione di un’economia di dipendenza, la sua riduzione a “questione criminale” e una modernizzazione sbagliata.

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