«Non dimenticare Kabul»
«A vent’anni di distanza dall’11 settembre, il mondo assiste in apparente stato d’inerzia alla presa di Kabul, per le cui strade lo spettro del fondamentalismo islamico si aggira nuovamente, proietta…

«A vent’anni di distanza dall’11 settembre, il mondo assiste in apparente stato d’inerzia alla presa di Kabul, per le cui strade lo spettro del fondamentalismo islamico si aggira nuovamente, proiettando sui muri delle case ombre di regresso, di oppressione e di terrore. E si fugge, si piange, ci si nasconde, ci si aggrappa, in una folle illusione di salvezza, ai carrelli degli aerei in partenza, pagando con la vita il desiderio di libertà. Fra la disperazione e la rassegnazione, si lanciano appelli, schiacciati dalla considerazione che “tutto sia cambiato perché tutto rimanga com’era”. Sotto i riflettori è, soprattutto, la condizione delle donne afghane, i cui traguardi verso l’emancipazione e la parità di diritti rischiano di essere cancellati, nello stesso modo in cui la vernice bianca copre le effigi di donne senza velo, che sorridono dai manifesti dei beauty centers della capitale afghana. Si gioca, in queste ore, l’ipocrisia delle Istituzioni e degli Organismi Internazionali, perché nessuno potrà dire che non era previsto o che non si poteva sapere, perché la cronaca informa, ma la storia insegna. Non si può pensare di lasciare un segno tangibile o di indicare la svolta affidando a sintetici comunicati diramati tramite i social la propria solidarietà alle donne afghane, sperando di azionare la valvola del cambiamento. Dai post scritti sotto l’ombrellone a Ferragosto si può propagare lo sdegno, ma non si può innescare la reazione, o meglio ancora la prevenzione di un disastro di portata epocale. L’Italia, in questo momento, ha un ruolo fondamentale e le si presenta un’occasione unica: la prima Conferenza G20 dedicata all’empowerment femminile, che si terrà a Santa Margherita Ligure il 26 agosto prossimo, proprio nell’anno della presidenza italiana del G20. “È la prima volta che in ambito G20 viene organizzato un evento sull’empowerment delle donne, dando centralità alla qualità del lavoro femminile, alle politiche per la valorizzazione del talento e della leadership delle donne, all’affermazione e alla tutela dei loro diritti e al contrasto alla violenza di genere”: è quanto si legge sul sito ufficiale www.g20.org. Gli occhi dei protagonisti e degli attori principali della convention non potranno e non dovranno guardare, tuttavia, solo a quella metà del mondo in cui la parità fra uomo e donna deve essere potenziata e rafforzata, ma, soprattutto, a quei brandelli di terre in cui la condizione femminile e l’emancipazione della donna rischiano di trasformarsi in un miraggio confuso dalla mistificazione e dalla censura di Stato. L’impegno ad arginare questo tsunami non è solo di natura politica, ma giuridica: è compito precipuo di tutte le Nazioni della Terra vigilare e prevenire ogni forma di discriminazione nei confronti delle donne; è quanto richiede la CEDAW, la Convenzione Onu del 1979 sull’Eliminazione di ogni forma di discriminazione contro le donne. E non si può utilmente ricordarsi della CEDAW solo in occasione delle annuali ricorrenze internazionali, ma corre l’obbligo morale di impegnarsi nella sua applicazione in ogni singolo giorno dell’anno! L’auspicio è che il governo talebano, che si appresta a trasformare l’Afghanistan in un Emirato Islamico, mantenga la promessa fatta da Samangani, membro della commissione Cultura degli insorti, ossia “che le donne non saranno vittime e che dovrebbero far parte del governo, secondo i dettami della Sharia”. Esistono armi più potenti della guerra, e sono quelle del dialogo, della mediazione, della comunicazione, dell’accettazione dell’identità dell’altro, del rispetto del desiderio di libertà di un popolo: ci si deve interrogare su quanto e su come si sia preparati e capaci di usare questo pacifico arsenale e, in caso di risposta negativa, su come si possa imparare a parlare un linguaggio nuovo. Se l’umanità non si dichiarerà pronta a tutto questo, ancora una volta, siederemo piangendo “sui fiumi di Babilonia … al ricordo di Sion. Ai salici di quella terra appenderemo le nostre cetre”.
Avvocato*