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Cosche e colletti bianchi nell’affare dei farmaci: «Tutti i soci si conoscevano tra loro»

L’accusa durante la requisitoria di Farmabusiness: «È antitetico che Tallini abbia investito così tanti danari senza capire chi gestiva le quote»

Pubblicato il: 05/12/2021 – 10:58
di Alessia Truzzolillo
Cosche e colletti bianchi nell’affare dei farmaci: «Tutti i soci si conoscevano tra loro»

CATANZARO La teoria è quella della partita di calcetto del giovedì dove tutti i giocatori si conoscono e sanno chi gioca in squadra con loro. Un esempio semplice, diretto, per spiegare ciò che l’accusa ritiene retorico, ovvero che tutti i soci del consorzio Farma Italia si conoscessero tra di loro e ognuno sapesse perfettamente chi fosse l’altro e in quale ruolo “giocasse” nella partita sull’affare della distribuzione dei farmaci all’ingrosso. «… ma di che stiamo parlando? Di soggetti che fanno una società, ma non si conoscono?», ha detto il sostituto procuratore Domenico Guarascio.
Una lunga e minuziosa requisitoria è stata discussa lo scorso 24 novembre, davanti al giudice per l’udienza preliminare Barbara Saccà, dal procuratore aggiunto della Dda di Catanzaro Vincenzo Capomolla e dal sostituto procuratore Domenico Guarascio.
Il processo è Farmabusiness nel quale si trovano implicati esponenti della cosca Grande Aracri di Cutro, professionisti, politici di spicco, esponenti della criminalità organizzata di Catanzaro. L’intento comune, secondo l’accusa, era quello di inserirsi nell’affare della distribuzione all’ingrosso dei farmaci, investendo i capitali acquisiti coi soldi sporchi dalla cosca Grande Aracri. Pietra d’angolo, che collega tutte le parti di questa vicenda, è considerato l’imprenditore/antennista di Catanzaro Domenico Scozzafava, persona che fa da raccordo, secondo le risultanze di indagine, tra la cosca di Cutro, i professionisti provenienti da Roma e il politico di lungo corso Domenico Tallini, all’epoca dei fatti assessore regionale al Personale e, di recente, ex presidente del consiglio regionale.

Scozzafava e i rapporti con Tallini

Il pm Domenico Guarascio sottolinea come Tallini, in sede di interrogatorio di garanzia davanti al gip, sminuisse la figura di Scozzafava e i rapporti che l’antennista aveva allacciato col politico. «È un chiacchierone, una persona che…, ma sì, io non gli davo peso, parlavamo sì, ma…, ma non c’era quell’intento», sono alcune dichiarazioni riferite a Tallini davanti al gup e che vengono riportate dal magistrato. Ma secondo il pm «se fosse vero che Scozzafava è semplicemente il quisque de populo che, come in un romanzo pirandelliano, si traveste di maschere non sue» sarebbe allo stesso tempo «un genio» avendo avuto la capacità di «attivare una rete di collaborazioni che frutta un prodotto commerciale importante». Infatti, ricorda il pm, il consorzio Farma Italia porta i soci ad aprire «trenta punti vendita nel giro di sei mesi». «… si mangiano – prosegue l’accusa – diverse somme di denaro, truffano, perché poi ci sono anche le ipotesi di truffe, perché lei (si riferisce al gup, ndr) ha le denunce in atti, lavoratori che pagano dei corsi per entrare in questo ambiente sanitario, e se fosse così il semplice antennista, apparirebbe davvero paradossale questa sua capacità di tragirare e di condurre il mondo di là e il mondo di qua in una unione perfetta…».
Secondo l’accusa «… Tallini si interfaccia, almeno in maniera che si pretende visibile, non solo con Domenico Scozzafava, ma con Paolo De Sole (professionista romano ritenuto al servizio della cosca, ndr), ma con Walter Manfredi (quest’ultimo non è imputato, ndr) e non si dica, come fa in interrogatorio, “Io Manfredi Walter non lo conoscevo”, perché è Walter Manfredi ad indirizzare Scozzafava subito da Tallini, e ancora siamo a metà del 2013». 

Il caso Mellea

Sia il procuratore aggiunto che il sostituto, nel corso delle rispettive discussioni, hanno riportato la vicenda che vede coinvolto il signor Mario Astorino, già capo cantiere della ditta di pulizie Callser servizi. Astorino nel 2014 aveva organizzato, nel quartiere Siano di Catanzaro, un incontro per sostenere Tallini in occasione della campagna elettorale per le elezioni regionali. Nel corso dell’interrogatorio di garanzia, Tallini aveva dichiarato che durante questo incontro «si avvicina questo Mario Astorino e mi dice: “Hai visto, Piero Mellea mi ha minacciato perché dice che chiunque voglia fare un incontro a Siano deve prima avere la sua autorizzazione e lui, siccome ha i suoi candidati, non vuole che tu venga in questo quartiere”». Piero Mellea è indicato quale referente della cosca Grande Aracri a Cutro, e non avrebbe voluto che si organizzasse a Siano un incontro per Domenico Tallini. Questa la versione del politico durante l’interrogatorio di garanzia il 24 novembre 2020. Opposta è la versione dello stesso Astorino, il quale afferma, davanti ai magistrati della Dda di Catanzaro, di essere stato avvicinato a dicembre 2020 da Giuseppe Tallini, figlio di Domenico Tallini, il quale gli chiese di «ricordare se, all’incontro di cui vi ho riferito, fosse presente anche tale Pierino Mellea». Astorino riferisce che non ricordava bene che alla riunione organizzata da lui e dalla sua famiglia fosse presente Mellea. Tempo dopo, «a Pasqua di quest’anno» è stato lo stesso Domenico Tallini a chiedere di parlare con Astorino. Si sono incontrati, racconta il capo cantiere, all’ex Motel Agip di Catanzaro dove il politico si presenta con un avvocato «che si chiama Mellea». Insieme gli chiesero se fosse disposto a fare una video registrazione nella quale affermava che alla riunione elettorale del 2014 era presente Piero Mellea. «Ricordo che Domenico Tallini mi disse che potevo tranquillamente testimoniare sulla presenza di Piero Mellea in quella occasione, poiché l’avvocato è il cugino di Piero Mellea, attualmente arrestato, per cui non mi sarebbe capitato niente di male». Astorino ribadì che non avrebbe potuto testimoniare una cosa non vera.

Gli incontri

L’accusa contesta, nel corso della requisitoria, anche alcune considerazioni del gip il quale afferma, nell’ordinanza di misure cautelari, che «Tallini è accorto nel non usare il telefono». Ma secondo il pm questa è una congettura «perché si incontrano, contrariamente a quanto dice Tallini nel suo interrogatorio, i soggetti, i soggetti di cui stiamo parlando, si incontrano a Ruggero, a casa di Scozzafava, a casa al mare, si incontrano a casa di Tallini, si incontrano al Tiramisù, si incontrano alla Buongustaia, si incontrano più e più volte e il senso di questi discorsi viene ricordato plausibilmente dagli interlocutori. E al 13 novembre 2013 è Scozzafava a confermare a Galli come “stiamo lavorando sempre sotto banco, sotto banco come abbiamo detto, stiamo lavorando bene, come hai detto tu e ha detto Mimmo, dobbiamo lavorare sotto banco”». 
«Tallini e Scozzafava, De Sole Paolo e da qui a poco emergeranno in maniera più visibile gli esponenti della cosca cutrese – prosegue il pm Guarascio –, si attivano insieme, per fare che cosa? Per ricercare i capannoni. Ci sono sul punto conversazioni chiarissime in cui Tallini si offre di recuperare il capannone. Paolo De Sole dice a Scozzafava “prima assicuriamoci il capannone, così Mimmo ci può dare le carte. Sì, vado da lui e mi disbrigo quest’altra pratica”, perché sanno che senza una struttura non si può fare questa cosa…». 

La cena tra Tallini e Paolo De Sole

La pubblica accusa riporta anche una cena tra Paolo De Sole e Domenico Tallini nel corso della quale «cercano di parlare del figlio perché Giuseppe Tallini ad un certo punto vuole abbandonare la nave e Domenico Tallini non vuole, e chiama Paolo De Sole a casa per convincere Giuseppe Tallini a restare all’interno della società». Di questo fatto ne parla Paolo De Sole a Salvatore Grande Aracri in una conversazione dove si «dipana il concreto atteggiarsi dei ruoli dei soci e delle difficoltà concrete, di vita associativa, ma che nulla hanno a che fare con il timore o con il nascondimento della presenza cutrese all’interno dell’affare…».
In sede di interrogatorio di garanzia i magistrati hanno chiesto a Tallini notizie «rispetto alla cifra investita in questo affare, e Tallini ci dice “Io c’ho perso centocinquanta–duecento mila euro, mal contati”, e gli abbiamo chiesto “Ma scusi, ma di queste società quindi lei non sa niente?”, “No”. E appare un po’ antitetico – afferma il pm Guarascio –, sempre sul campo della plausibilità e delle massime d’esperienze, investire così tanti danari senza conoscere i propri soci, senza capire le quote, senza capire chi le ha gestite…». Non regge, secondo l’accusa, la teoria secondo la quale Tallini (così come prospettato dal Riesame e dalla Cassazione) potesse non sapere chi c’era dietro l’affare nel quale aveva investito del denaro e dentro il quale era entrato anche il figlio. 

La responsabilità (e il potere) delle donne della famiglia Grande Aracri

In dichiarazioni recenti, e giudicate non attendibili dai magistrati, il boss Nicolino Grande Aracri ha affermato che sua moglie «non sa fare una O con un bicchiere». Secondo la Dda di Catanzaro era un tentativo di salvaguardare la figlia e la moglie del boss che sono imputate anch’esse nel processo Farmabusiness. La realtà, secondo l’accusa, è che durante la detenzione degli uomini della consorteria «la responsabilità della famiglia intesa in senso ‘ndranghetistico veniva assunta da Mauro Giuseppina (moglie di Nicolino Grande Aracri), da Grande Aracri Isabella (figlia di Nicolino Grande Aracri) e da Serafina Brugnano (moglie di Ernesto Grande Aracri)».
Un esempio fra tutti riguarda il ritrovamento di armi «all’interno di un cingolato posto in una proprietà della famiglia Ruggiero». Ritrovamento avvenuto grazie alle dichiarazioni dell’ex tesoriere della cosca, Giuseppe Liperoti, oggi collaboratore di giustizia il quale afferma che «queste armi serviranno prima o poi – chissà, forse no, forse sì – ad una resa di conti finale all’interno di quella faida che da sempre ha inseguito quel territorio e massimamente il territorio di Cutro». I proprietari del terreno vanno in carcere e qui vengono intercettati mentre si lamentano «facendo nomi e cognomi, rispetto al fatto che quelle armi siano da ricondurre a Romano Salvatore (genero di Ernesto Grande Aracri, ndr), ai Grande Aracri». Inoltre chiedono ai familiari di recarsi «dalla famiglia Grande Aracri affinché li scagioni, richiamando anche regole di onore rispetto al fatto che non è possibile che una famiglia mafiosa così potente faccia andare di mezzo qualcuno per una detenzione di armi che detiene in nome e per conto altrui».
Dopo queste richieste le donne della cosca si presentano da Salvatore Grande Aracri, classe ’86, per chiedergli di prendersi la responsabilità delle armi. L’obbiettivo è quello di «mantenere libero Romano Salvatore, che, per come lo stesso Liperoti ci racconti, era in quel momento l’esponente più attivo, cioè ovverosia quello che poteva anche attentare alla vita di altri componenti della famosa famiglia Ciampà–Dragone che si contrappone a quella dei Grande Aracri da tempo ormai datato». Salvatore Grande Aracri, classe ’86, non accetterà di accollarsi la responsabilità di un qualcosa che non è immediatamente a lui riconducibile.
Secondo il collaboratore di giustizia Antonio Valerio gli aspetti di alternanza tra le mogli, le donne, sono evidenti «cioè tutte le consorterie limitrofe del territorio sanno che quando non ci sono loro (gli uomini, ndr) devono andare da queste persone». (a.truzzolillo@corrierecal.it)

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