CATANZARO Un incontro a pranzo per pianificare un grosso progetto nel campo degli idrocarburi. Un’osteria di Vibo Valentia e un commensale che i carabinieri del Ros seguono da tempo, il boss Luigi Mancuso. E poi la frase di un imprenditore vicino al capomafia di Limbadi su uno dei gruppi imprenditoriali più importanti in Calabria (e, nel suo settore, in Italia). «È uno dei nostri», dice Giuseppe D’Amico riferendosi al proprietario dell’Amaro del Capo e promuovendo davanti ai suoi ospiti la commercializzazione dei prodotti di quell’azienda. Potrebbero essere le premesse da cui sarebbe nata l’iscrizione nel registro degli indagati di Giuseppe e Sebastiano Caffo da parte dei magistrati della Dda di Catanzaro. L’inchiesta è Petrolmafie, il contesto quello della volontà del clan di Limbadi di inaugurare un grosso business petrolifero coinvolgendo investitori esteri. Il gruppo Caffo, dopo la pubblicazione della notizia su “Domani”, ha respinto fermamente ogni addebito e l’accostamento alla cosca. «In azienda non è mai venuto nessuno per dirmi “portiamo l’amaro fuori”. Non c’è una mia parola di intercettazione con questi signori», ha spiegato al quotidiano nazionale. Ma andiamo con ordine, ripercorrendo la storia per come appare negli atti dell’inchiesta.
In principio ci sono i piani del clan Mancuso di allargare i propri orizzonti nel settore petrolifero. Il progetto – enorme – sarebbe consistito nell’apertura di un canale di approvvigionamento di carburante proveniente direttamente dal gruppo petrolifero internazionale Rompetrol, da distribuire in particolare nella provincia vibonese, attraverso il supporto della cosca Mancuso. Rompetrol avrebbe dovuto acquisire numerose stazioni di servizio a cui apporre il proprio marchio e quindi distribuire su vasta scala – in un regime di sostanziale oligopolio – il proprio prodotto, con un considerevole ritorno economico per le casse della cosca che a tutti gli effetti sarebbe entrata in società – attraverso i suoi imprenditori di riferimento, tra i quali proprio D’Amico – con il colosso petrolifero. I piani del clan sul business degli idrocarburi avrebbero previsto, però, anche «il coinvolgimento del predetto gruppo petrolifero nella costruzione di un oleodotto, con annesso deposito costiero, nel territorio del comune di Vibo Valentia e precisamente nella zona industriale di Porto Salvo, al fine di favorire l’attracco di navi di grosso cabotaggio per lo sversamento in loco del prodotto petrolifero, così da giungere al controllo a monte della distribuzione poi del prodotto su larga scala».
Tra i vari passaggi della trattativa ce n’è uno che i carabinieri del Ros seguono minuto per minuto. Si tratta di un pranzo del gennaio 2019 al quale non partecipa il “presidente” della Rompetrol, «trattenuto in Romania per impegni di lavoro». Ma i commensali, tra i quali spicca il boss Luigi Mancuso, una delle figure chiave nell’inchiesta “Rinascita Scott”, sono tutti d’accordo «sulla necessità di intavolare la trattativa in modo tale che Arman Magzumov potesse poi informare i suoi vertici in Kazakistan, ivi compreso il presidente in Romania». Magzumov, che non figura tra gli indagati, è definito dagli inquirenti «rappresentante del gruppo petrolifero kazako»; assieme a lui, nell’incontro conviviale in un’osteria di Vibo Valentia, c’è anche Francesco Mazzani, altro broker del settore.
È questa occasione il contesto nel quale emergono i presunti “progetti” di Mancuso riguardo ai prodotti del gruppo Caffo. Riportiamo dal decreto di fermo dell’inchiesta Petrolmafie: «La presenza di Francesco Mazzani e Arman Magzumov veniva colta da Luigi Mancuso come occasione per valutare di avviare anche altri rapporti commerciali, esportando ad esempio alcuni prodotti locali come il noto “Amaro del Capo”, prodotto dalla “Distilleria Caffo” di Limbadi».
Nessuno dei Caffo è presente al pranzo, né – nel decreto di fermo – vi sono intercettazioni tra gli imprenditori e gli indagati. Peraltro, gli imprenditori non compaiono nel decreto di conclusione delle indagini preliminari. È Giuseppe D’Amico, considerato il riferimento del clan per gli affari sugli idrocarburi, a introdurre l’argomento: «Si potrebbe vedere… si potrebbe vedere pure che qui c’è una grossa distilleria… ma una distilleria che … è presente in tutto il mondo… Amaro del Capo… adesso te lo faccio assaggiare», dice a Mazzani.
«Oltre all’Amaro del Capo, di cui venivano elogiate le qualità – appuntano ancora gli investigatori – Giuseppe D’Amico e Luigi Mancuso proponevano la vendita del vino calabrese e di altri prodotti tipici regionali». Mazzani, da parte sua, «si mostra interessato soprattutto al liquore anche perché, in Olanda, questa tipologia di amaro non verrebbe ancora commercializzata».
«Penso sia famoso in tutta Italia», dice Mazzani. D’Amico risponde che «è famoso ovunque» e poi rilancia: «Allora te lo facciamo… te lo mandiamo noi… con il container. Voi mandate i soldi, noi mandiamo il prodotto e siamo contenti in tre… noi, voi e Pippo». Mazzani non nasconde le difficoltà, legate all’embargo, relative alla commercializzazione dei prodotti italiani in Russia. Ma presto, in quel pranzo, si torna sull’argomento. E «per ciò che concerne la commercializzazione del liquore “Amaro del Capo”», D’Amico asserisce che «il proprietario “è una persona vicina a noi”, al punto che lo stesso Mancuso proponeva di recarsi presso lo stabilimento per farlo conoscere agli ospiti kazaki: “[..] e si può andare pure con loro …”». (p.petrasso@corrierecal.it)
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