CATANZARO A tre anni e mezzo dalla terribile esplosione che dilaniò il corpo di Matteo Vinci, biologo 42 enne di Limbadi ucciso con una bomba piazzata sotto la Ford Fiesta che stava guidando, la Corte d’Assise di Catanzaro – presidente Alessandro Bravin – ha emesso la sentenza che condanna all’ergastolo i mandanti dell’omicidio: Rosaria Mancuso e il genero Vito Barbara. Sugli ergastoli è stata accolta la richiesta di pena invocata dal pm Andrea Mancuso. Dalle accuse è stata esclusa l’aggravante mafiosa.
Ai genitori di Matteo, costituiti parte civile, è stato riconosciuto un risarcimento di 150mila euro ciascuno. Matteo Vinci è morto il 9 aprile 2018 mentre tornava a casa dalla proprietà di campagna della famiglia. Si trovava col padre, seduto accanto a lui sul sedile del passeggero. Francesco Vinci si salvò ma riportò profonde ustioni che ancora oggi segnano il suo corpo. Nonostante questo è sempre stato presente in aula insieme alla moglie Sara Scarpulla, donna minuta e fortissima che della battaglia per la giustizia nei confronti del figlio ha fatto una ragione di vita. Un omicidio, quello di Matteo Vinci, diretto a “punire” una famiglia che non si piegava a cedere la propria terra ai vicini confinanti, i Di Grillo/Mancuso, imparentati con la potente cosca di Limbadi. Le indagini, condotte dai carabinieri di Vibo e coordinate dalla Dda di Catanzaro, si sono subito concentrate, grazie anche alla immediata collaborazione della famiglia Vinci, sulla pista dei Di Grillo/Mancuso.
Per quanto riguarda gli esecutori materiali del delitto, è in corso il processo con rito abbreviato che vede imputati Antonio Criniti e Filippo De Marco. Sarebbero loro, secondo l’accusa, ad avere piazzato la bomba sotto l’auto dei Vinci.
Sono stati condannati all’ergastolo Rosaria Mancuso, 65 anni, e il genero Vito Barbara, 31 anni, considerati i mandanti e gli ideatori dell’attentato. Dieci anni (ne erano stati chiesti 20) sono stati comminati nei confronti di Domenico Di Grillo, 73 anni, marito di Rosaria Mancuso, accusato del tentato omicidio di Francesco Vinci avvenuto nel 2017 attraverso un brutale pestaggio che gli fracassò la mandibola e lo lasciò mezzo morto davanti alla sua proprietà in campagna, una terra sulla quale i Mancuso/Di Grillo, secondo l’accusa, avevano messo gli occhi e intendevano acquisire ad ogni costo. Tre anni e sei mesi di carcere (l’accusa aveva chiesto 12 anni) è la pena inflitta a Lucia Di Grillo, 31 anni, figlia di Domenico Di Grillo e Rosaria Mancuso e moglie di Vito Barbara, che è accusata, insieme agli altri familiari, di lesioni personali nei confronti di Francesco Vinci e sua moglie Rosaria Scarpulla aggrediti e malmenati dagli indagati. Secondo quanto ricostruiscono le indagini, l’episodio avvenne nel 2014 e costituisce uno dei tanti episodi di vessazioni che i Vinci hanno subito da parte dei Mancuso/Di Grillo. I Vinci, difesi dall’avvocato Giuseppe De Pace, non si sono mai piegati alle richieste dei confinanti avviando anche una serie di procedimenti in sede civile e penale. La risposta finale, stando alle indagini, sarebbe stata l’autobomba piazzata sotto la Ford Fiesta di Francesco Vinci, in quel tragico giorno guidata dall’unico figlio Matteo. Nel collegio difensivo gli avvocati Francesco Capria, Gianfranco Giunta, Mario Santambrogio, Giovanni Vecchio, Fabrizio Costarella e Stefania Rania.
«Qui gli ergastoli non sono due ma tre». Conta anche la morte di suo figlio, Sara Scarpulla, tra coloro che hanno ricevuto una condanna a vita. «Spero che questo male venga debellato affinché il sangue di Matteo non sia stato sparso invano. Anche una sola persona, una sola vita, che si salva dalle grinfie della ‘ndrangheta è già una vittoria», ha detto tra le lacrime.
«Le condanne dimostrano che le dichiarazioni della signora e del marito avevano fondatezza – dice l’avvocato Giuseppe De Pace –, non dovevano essere tacciate di mendacio. Diciamo che siamo moderatamente soddisfatti. Riguardo al fatto dell’aggravante mafiosa che la corte ha ritenuto non sussistente, noi siamo convinti che ci fosse e che tutt’ora agisce nelle vite di queste persone». (a.truzzolillo@corrierecal.it)
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