LOCRI Chi è Mimmo Lucano? Alla domanda paiono corrispondere molteplici risposte che variano a seconda della prospettiva. Non solo politica – come tiene a precisare il tribunale di Locri – ma anche “semplicemente” visuale. A seconda che si osservi la storia da vicino o da lontano; da dentro o da fuori. Per il Collegio giudicante del processo “Xenia”, presieduto dal giudice (e presidente del tribunale di Locri) Fulvio Accurso, che ha condannato in primo grado l’ex sindaco di Riace a 13 anni e 2 mesi di reclusione, Lucano era il «“dominus” indiscusso» di un sodalizio «che ha strumentalizzato il sistema dell’accoglienza a beneficio della sua immagine politica». Un individuo «divorato» dal «demone ossessivo» costituto «dalla ricerca di una sempre maggiore visibilità, da attuare ad ogni costo, tanto da non essere più riconosciuto neppure dalle persone che gli stavano accanto».
Il tutto non da solo, ma alla guida di «un sistema clientelare che gli ruotava attorno, costituito dai rappresentanti legali delle varie associazioni». Le 904 pagine delle motivazioni della sentenza del tribunale di Locri ripercorrono le prospettive della storia, dividendo tra la nascita di «un “modello encomiabile”» e tutto quanto ne sarebbe seguito.
Il dispositivo della sentenza è stato letto dal giudice Accurso lo scoro 30 settembre, dopo circa tre giorni di Camera di consiglio. «Una condanna abnorme», aveva commentato fin da subito Domenico Lucano, conosciuto come “Mimmo”, per gli amici “Mimì”. C’era dunque attesa per comprendere su quale base poggiasse quella condanna computata all’esito dell’analisi di 22 ipotesi delittuose divise tra quelle – la maggior parte – relative alla gestione dei progetti di accoglienza (un tempo attivi nel borgo della Locride) e «altre attinenti a vicende collaterali» come poteva essere il rilascio della carta d’identità in favore di Success A. oppure l’“abuso d’ufficio” dovuto alla mancata riscossione dei diritti previsti in sede di rilascio di certificati e carte d’identità da parte del Comune.
Alla base del processo scaturito da «un’attività investigativa ambiziosa e complessa» ci sarebbe, a detta dei giudici, una “dicotomia” distinta tra le due chiavi di lettura degli elementi di prova. Da un lato l’accusa, rappresentata dalla procura di Locri, che avrebbe «consegnato una visione delle cose “da vicino”» e cioè «senza l’uso di lenti deformanti»; dall’altro la Difesa, che avrebbe guardato il processo “da lontano” tentando «di accreditare una lettura delle prove che fosse “esterna” al procedimento, facendo leva su una sorta di persecuzione politica» subìta da Lucano e finalizzata «ad azzerare il sistema di integrazione ed accoglienza dallo stesso faticosamente creato».
«Nelle intercettazioni e nei documenti esaminati – scrive il Collegio – non vi è nessuna traccia dei fantomatici “reati di umanità”». Il processo celebrato a Locri «non ha neppure sfiorato la tematica dell’integrazione che nei primi anni veniva senz’altro praticata su quel territorio» ma ha «messo in luce i meccanismi illeciti e perversi fondati sulla cupidigia e sull’avidità, che ad un certo punto hanno cominciato a manifestarsi in modo prepotente in quei luoghi e si sono tradotti in forme di vero e proprio “arrembaggio” ai cospicui finanziamenti». Il “punto di rottura”, nell’analisi fatta dai giudici di Locri, è da ritrovarsi nei capi d’imputazione relativi alla gestione dei progetti Sprar, Msna e in particolar modo Cas attivi a Riace dal 2014 al 2017 stando all’arco temporale che ha interessato il procedimento.
Secondo i giudici, «Lucano e i suoi più stretti collaboratori hanno condiviso la logica predatoria delle risorse pubbliche» provenienti dai progetti per l’accoglienza e l’integrazione di migranti e rifugiati al tempo attivi nel borgo. Da un lato lo Sprar, che funzionava come una sorta di «finanziamento a fondo perduto» tale che venissero assegnate delle risorse in base al numero di stranieri presenti sul territorio a patto che venissero investite nel progetto e rendicontate. L’incremento di arrivi a Riace aveva visto lievitare gli stanziamenti degli iniziali 230mila euro a quasi 500mila in poco tempo. Da qui i giudici riprendono le parole pronunciate in dibattimento dal teste principale dell’Accusa, il tenente colonnello della Guardia di finanza (all’epoca a Locri) Nicola Sportelli, che racconta di «anomalie» rilevate a seguito delle visite dei funzionari del Viminale. «Nel 2017 la situazione si era aggravata, tanto che il Comune aveva ricevuto il 70% delle somme dovute» senza mai rendicontarle.
Dall’altro lato il Cas, che funziona invece secondo la logica del “rimborso spese” dove «le somme venivano erogate dalla Prefettura solo dietro la presentazione di specifiche fatture di spesa». Una prima convenzione viene stipulata tra Riace e la Prefettura nel 2014, ma è la seconda che, aumentando il tetto da 30 a 35 euro al giorno per ogni beneficiario, «sollecita gli appetiti degli interessati» che avrebbero distratto quelle somme a loro personale vantaggio o «per mero interesse politico come nel caso di Lucano». Sulla base di queste ricostruzioni e della natura pubblica degli accordi che governavano i progetti, il tribunale arriva a qualificare l’esistenza del reato di “truffa aggravata”, tra le contestazioni principali alla stregua – in senso lato – del peculato ravvisato dalla Corte nell’investimento per il frantoio o nel lussuoso restauro di immobili che dovevano essere adibiti all’accoglienza turistica.
«Lucano e i suoi più stretti collaboratori – scrive il Collegio – utilizzando liberamente somme che venivano erogate per i progetti di accoglienza come fossero proprie, le destinavano per l’acquisto di beni che non avevano alcuna connessione con le finalità per le quali quegli importi erano stati erogati». L’utilizzo, secondo i giudici, non era finalizzato all’accoglienza, ma «alla soddisfazione di interessi propri o anche per valorizzare il territorio di Riace, a cui era soprattutto interessato Lucano» che ne avrebbe profittato in termini di immagine «da capitalizzare a livello politico».
Il Collegio richiama più volte le intercettazioni «di natura autoaccusatoria» che mostrano «un mondo privo di idealità, soggiogato da calcoli politici, dalla sete di potere e da una diffusa avidità». Sono questi gli elementi principali per utilizzare i quali viene fatta una interpretazione esclusiva – contestata nella nota diffusa subito dopo il deposito delle motivazioni dai legali di Lucano, Andrea Daqua e Giuliano Pisapia – della sentenza “Cavallo” delle Sezioni Unite. A ciò si aggiunge la ricostruzione operata attraverso una fase dibattimentale durata circa due anni nella quale è mancato l’esame dell’ex sindaco di Riace. Dalle dichiarazioni spontanee rilasciate, viceversa: «È emersa – scrive il Collegio – una pura passione che lui ha nutrito per anni per quel mondo nuovo che ha saputo creare», ma anche «un eloquio fluido» che ha lasciato inevase una serie di domande. Nessuna giustificazione, secondo Accurso, «in merito alle elevate somme, della portata di migliaia di euro di cui – per suo tramite – disponeva la compagna Tesfahun Lemlem (condannata a 4 anni e 4 mesi, ndr)» oppure sulle motivazioni per le quali l’associazione “Città Futura” «riceveva ogni mese un cospicuo bonifico dalle isole Cayman».
Il mancato esame, secondo i giudici, non ha permesso di conoscere le ragioni per le quali Lucano «aveva tollerato che i suoi più stretti collaboratori avessero posto in essere numerosi reati di cui egli era a piena conoscenza, la cui commissione aveva ugualmente supportato di buon grado, con il suo comportamento omissivo, che era stato tenuto per bieco calcolo politico, dal momento che ciascuno di loro era portatore di un cospicuo pacchetto di voti, a cui lui non aveva inteso rinunciare».
I giudici sposano la tesi dell’Accusa secondo cui Lucano sarebbe stato il «presidente di fatto» di “Città Futura” dacché il legale rappresentante, Fernando Capone (condannato a 9 anni e 10 mesi), risultava solo un suo prestanome. Una circostanza che avrebbe creato «incompatibilità col ruolo formale dell’ex sindaco di responsabile dei progetti di accoglienza» posto che l’associazione era la capofila nella gestione «dei fondi che arrivavano». Qui viene ravvisata una “regia comune” che porta a riconoscere l’esistenza di un’associazione a delinquere. I componenti, secondo il Collegio, si muovo in maniera sinergica nelle attività che vanno dal «trattenimento dei “lungopermanenti”» fino all’effettuazione di «prelievi in contanti per sovvenzionare le manifestazioni estive».
Un’organizzazione «tutt’altro che rudimentale, che rispettava regole ben precise, permeata dal ruolo centrale, trainante e carismatico di Domenico Lucano, che ne era al vertice».
«Lucano – scrivono i giudici – dopo aver realizzato l’encomiabile progetto inclusivo dei migranti, che si traduceva nel così detto “modello Riace”, invidiato e preso ad esempio da tutto il mondo, essendosi reso conto che gli importi che venivano elargiti dallo Stato per governare quel fenomeno erano più che sufficienti allo scopo, piuttosto che restituire ciò che veniva versato» avrebbe puntato all’arricchimento personale. Nelle parole dei giudici, sarebbe un «falso mito» quello più volte richiamato dall’ex sindaco di non aver intascato nulla. «Ha agito allo scopo di consentire agli altri suoi correi di realizzare cospicui profitti, della portata di milioni di euro, che mai avrebbero potuto raggiungere senza la sua approvazione e che egli ha consentito pur di ricevere il loro sostegno elettorale per alimentare l’immagine del politico illuminato che egli ha cercato di dare di sé ad ogni costo. […] Nulla importa che l’ex sindaco di Riace sia stato trovato senza un euro in tasca – come orgogliosamente egli stesso si è vantato di sostenere a più riprese – perché ove ci si fermasse a valutare questa condizione di mera apparenza, si rischierebbe di premiare la sua furbizia, travestita da falsa innocenza, ignorando però l’esistenza di un quadro probatorio di elevata conducenza, che ha restituito un’immagine ben diversa da quella che egli ha cercato di accreditare all’esterno, per come il complesso di questa motivazione ha dimostrato». Si attende ora l’impugnazione in Appello da parte dei difensori. (redazione@corrierecal.it)
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