CATANZARO I clan stanno approfittando della crisi pandemica per rafforzare la loro presenza nell’economia legale. Non solo, hanno puntato a piantare le radici in maniera più consistente nelle regioni più ricche del Centro-nord. In questo caso già prima della diffusione dell’epidemia che semmai ha costituito un moltiplicatore di “opportunità” per le cosche, di infiltrarsi nel sistema produttivo sano del territorio. Sono le evidenze emerse da uno studio condotto da Bankitalia che ha pubblicato un occasional papers dal tema “La criminalità organizzata in Italia: un’analisi economica”. Dallo studio portato avanti dagli analisti Sauro Mocetti e Lucia Rizzica, viene fuori uno spaccato preciso della capacità delle mafie di espandersi su tutto il territorio italiano e di condizionare l’economia sana. Frenando in misura significativa lo sviluppo economico nel lungo periodo. E la ‘ndrangheta ha giocato una partita importante in questa scalata economica delle regioni più ricche. Lo si denota dalla visione di insieme del lavoro realizzato dai due analisti che – partendo dalle aree dove maggiormente è ramificata la criminalità organizzata e da dove si è poi diffusa sul resto del Paese – indica le province calabresi, tra quelle con maggiore presenza mafiosa in Italia.
Dalla ricerca condotta emerge che «le mafie si sono indirizzate prevalentemente verso le province che erano caratterizzate da un Pil pro capite più elevato e da una maggiore dipendenza dell’economia locale dalla spesa pubblica e, quindi, verso territori con maggiori opportunità di investimento, di profitto e di estrazione di rendite». Mafie che hanno una capacità economica di tutto rispetto se, come quantificano i ricercatori, il volume di affari legati alle attività illegali sarebbe pari ad oltre il 2% del Pil italiano. A cui sarebbero da aggiungere i «proventi delle mafie ottenuti attraverso l’infiltrazione nell’economia legale». Una potenza di fuoco economico-finanziaria che avrebbe permesso di annidarsi e corrompere l’economia “sana” proprio per la sua capacità di disporre di enormi risorse da reinvestire. Soprattutto nelle fasi delicate generate dalle crisi economiche che hanno investito il Paese e che sono caratterizzate dalla scarsezza di liquidità in circolazione. Una situazione come quella legata alla diffusione del coronavirus in Italia e che dalla ricerca pubblicata da Bankitalia ne trae conferma.
Secondo lo studio dei due analisti, infatti, la percezione delle imprese rispetto al livello di infiltrazione delle mafie dallo scoppio della pandemia sarebbe cresciuto. Sulla base di un’indagine condotta tra gli imprenditori emerge che la percentuale di condizionamenti dei settori dove operano i soggetti interpellati da parte delle organizzazioni criminali è passata dal 9% del 2019 al 16% del 2020. Con un aumento sensibilmente maggiore dei reati di natura finanziaria. Si tratta di acquisizioni o finanziamenti insoliti “notati” dal campione di soggetti interpellati dalla ricerca. Una crescita percepita dagli imprenditori soprattutto nel Centro-nord e trainata dal fenomeno delle «acquisizioni insolite». «La maggiore variazione nel Centro Nord – si legge nel paper – potrebbe essere spiegata dalle maggiori opportunità di investimento per le mafie in tale area (a fronte di un mercato più prossimo alla saturazione nel Mezzogiorno), da un lato, e dalla più forte caduta dei livelli di attività per il Covid-19 nella stessa area, dall’altro».
Passando a setaccio i settori a cui maggiormente le cosche puntano per entrare nell’economia legale del Nord emerge, dallo studio, che sono due i comparti: il commercio e le costruzioni. E nella ricerca ne viene spiegata anche la ragione.
«Il commercio – secondo l’Unità di Informazione Finanziaria della Banca d’Italia (UIF) – sarebbe il comparto in cui si riscontra la maggior presenza di imprese “cartiere”, atte cioè a produrre fatture (“carta”) a fronte di operazioni commerciali inesistenti, al fine di riciclare i proventi delle attività illecite (Pellegrini et al., 2020)».
«Il settore delle costruzioni è, di contro – si legge nel paper di Bankitalia – tradizionalmente considerato il più profittevole per le organizzazioni criminali che riescono a godere di un vantaggio competitivo sui concorrenti grazie a una pluralità di fattori: una cospicua disponibilità di liquidità in un settore caratterizzato da elevata leva finanziaria; lo sfruttamento del lavoro irregolare e l’aggiramento dei vincoli normativi esistenti con il conseguente abbattimento dei costi operativi; la capacità di intercettare le commesse pubbliche sfruttando il proprio potere coercitivo e corruttivo».
Dallo studio condotto emergono inoltre quali siano gli effetti devastanti sul territorio in cui l’organizzazione criminale si annida e si rafforza. Da un lato scrivono gli analisti la presenza dei clan «condiziona in misura profonda il contesto socioeconomico e ne deprime il potenziale di crescita. Inoltre, andando oltre la sfera economica, la presenza di attività illegali inquina il capitale sociale e ambientale». Stando alle risultanze riportate nella ricerca, «l’insediamento di organizzazioni mafiose in Puglia e Basilicata nei primi anni Settanta avrebbe generato nelle due regioni, nell’arco di un trentennio, una perdita di PIL pro capite del 16 per cento circa». Prendendo poi a base di calcolo l’indicatore di presenza mafiosa in un territorio, i ricercatori sono riusciti ad esaminare la correlazione con la crescita economica locale nel lungo periodo. Dai risultati tratti dalla ricerca è emersa «un’associazione negativa tra l’indice di penetrazione delle mafie a livello provinciale e la crescita economica negli ultimi decenni». «In particolare – si legge nel paper – le province con un maggiore livello di penetrazione mafiosa (quelle al 90° percentile della distribuzione dell’indice) sono state caratterizzate da un tasso di crescita dell’occupazione più basso di 9 punti percentuali rispetto a quello delle province con un più contenuto indice di presenza mafiosa (10° percentile)». Tradotto in termini di valore aggiunto, si sostiene nella ricerca, questo significa «una crescita inferiore di 15 punti percentuali, corrispondenti a quasi un quinto della crescita media osservata nel periodo».
E poi c’è l’elemento distorsivo che la presenza mafiosa crea nel mercato privato. L’infiltrazione dei clan nell’economia legale, impone uno svantaggio competitivo per le imprese sane. «L’impresa infiltrata – scrivono nella ricerca – da un lato può beneficiare di maggiore liquidità e risorse finanziarie (i proventi delle attività criminali), dall’altro può condizionare la concorrenza usando il suo potere coercitivo e corruttivo, sia nei confronti delle altre imprese sia nei confronti della pubblica amministrazione».
Un aspetto quest’ultimo che chiama in ballo le responsabilità politiche degli amministratori locali. «Vi è una letteratura relativamente più ricca sugli effetti della presenza mafiosa sulla selezione e sui comportamenti della classe politica – scrivono a questo proposito i ricercatori di Bankitalia – e, più in generale, sulle persone che guidano, amministrano e lavorano nelle istituzioni pubbliche. Anche questo meccanismo incide sulla produttività dei fattori, laddove una classe politica meno preparata e più connivente facilita l’espansione del controllo mafioso e alimenta le distorsioni allocative delle risorse pubbliche». Come dire se i clan avanzano nel controllo del territorio lo devono anche, se non soprattutto, alla connivenza della classe politica. (r.desanto@corrierecal.it)
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