ROMA La ‘ndrangheta ha messo solide radici fuori dalla Calabria e non sembra per nulla arretrare nella sua capacità di infiltrarsi nei territori. Ed il modello che adotta per “infestare” il sistema economico produttivo che attacca, resta quello dell’organizzazione da cui è nata e che punta a massimizzare i profitti. Il profilo tratteggiato dall’ultimo rapporto semestrale della Dia dei clan ‘ndranghetisti assomiglia maledettamente a quello di una cellula tumorale capace di replicarsi per aggredire rapidamente l’organismo sano. Come un cancro appunto le cosche di ‘ndrangheta hanno innescato un meccanismo di migrazione rapida da un territorio – in questo caso – ad un altro. Mantenendo invariata la “cellula” originaria, cioè il sistema organizzativo originario tanto che la Dia la definisce come «un’organizzazione perfettamente sovrapponibile a quella della terra madre».
Ed i territori dove le cosche sono migrate sono ormai diversi e sono ormai fuori dai confini regionali
La Dia conta 46 “locali” in altre regioni, di cui 25 in Lombardia, 16 in Piemonte, 3 in Liguria, 1 in Veneto, 1 in Valle d’Aosta ed 1 in Trentino Alto Adige.
Al di fuori della Calabria, pertanto, «non vengono insediate solo le realtà economico-imprenditoriali, ma si cerca innanzitutto di creare insediamenti strutturati sul modello reggino dal quale partire per la massimizzazione dei profitti». Il «riconoscimento identitario» risalente agli albori della ‘ndrangheta «non è stato mai abbandonato e sarebbe riduttivo – avverte la Dia – relegarlo a mero fenomeno folkloristico. L’organizzazione è coesa e stabile grazie al senso di appartenenza che deriva dalle ritualità di affiliazione ed è ancorato al carattere parentale delle cosche».
Tali meccanismi «costituiscono il legame che le consorterie ‘ndranghetiste di tutto il mondo, mantengono con la casa madre reggina».
«Altamente rappresentativa» del profondo radicamento delle consorterie ‘ndranghetiste in aree lontane da quelle di origine è l’operazione “Enclave”, del febbraio 2021, che ha consentito di individuare e disarticolare un sodalizio costituito da calabresi e romani dedito al traffico di sostanze stupefacenti approvvigionate in gran parte dal Sud America. Al vertice del gruppo è risultato un soggetto ritenuto vicino alla cosca Alvaro di Sinopoli, nel Reggino.
«Talune importanti inchieste degli ultimi anni – si legge nella relazione – hanno permesso inoltre di ricostruire la rete strutturale dell’organizzazione fuori regione.
La mappa dei locali di ‘ndrangheta emersi nel Nord Italia nel corso degli anni in attività giudiziarie «è emblematica della forza espansionistica delle cosche e della loro vocazione a replicare fuori dalle aree di origine lo schema tipico delle organizzazioni calabresi».
Particolarmente pervasiva la ‘ndrangheta si è dimostrata in Piemonte, dove, secondo quanto scritto nella relazione della Dia, non mostra «segnali relativi ad un ridimensionamento». Anzi, la Direzione investigativa antimafia «ritiene potrà continuare a rivestire un ruolo di primissimo piano sullo scenario piemontese». «Ciò grazie alle più volte sottolineate strutturazioni e capillarità dei sodalizi ‘ndranghetisti, nonché per la strategica pacifica convivenza con quelli di altra matrice ivi presenti». Nella regione infatti la Dia segnala la presenza, oltre all’ndrangheta, di altre organizzazioni criminali di origine straniera: albanese, romena ed africana (in particolare nigeriana). Ma sono consorterie queste che puntano spesso, evidenzia la relazione, a fare «sinergia».
Mentre in Toscana la ‘ndrangheta ha mostrato la sua capacità di contaminare il sistema politico e amministrativo della regione. Una peculiarità che, stando a quanto sostenuto dalla relazione della Dia, sembrerebbe «particolarmente accentuata». A sostegno di questa tesi vengono citate tre distinte operazioni “Calatruria”, “Keu” e “Geppo”. Le inchieste – condotte dai carabinieri, coordinate dalla Procura nazionale antimafia e concluse il 15 aprile 2021 – hanno colpito su due distinti piani (imprenditoriale/narcotraffico) soggetti e imprenditori contigui alla cosca Gallace di Guardavalle (Catanzaro). Ebbene il filone di indagine “Calatruria” ha permesso di «evidenziare le infiltrazioni di elementi contigui» al clan Gallace sul mercato del movimento terra e delle forniture di inerti «insinuandosi di fatto in importanti commesse pubbliche».
Mentre l’attività investigativa portata avanti dagli inquirenti nell’operazione “Keu”, ha evidenziato i legami della cosca catanzarese con «imprenditori locali di rilievo nel settore conciario che riveste il ruolo di comparto trainante dell’economia, che interessa direttamente le province di Pisa e Firenze». «Tali imprenditori – scrive la Dia nella relazione – avrebbero allestito un’attività organizzata per la gestione abusiva di ingenti quantitativi di rifiuti, liquami e fanghi industriali contaminati che venivano convogliati nei sistemi depurazione in violazione di legge». Sempre con la compiacenza di vertici politici locali e dirigenti pubblici regionali che sono finiti al centro dell’inchiesta.
Ed infine la relazione della Dia cita l’inchiesta “Geppo” che ha visto ancora una volta protagonista la cosca Gallace in azione in territorio toscano e «ha riguardato l’ingente approvvigionamento di cocaina di provenienza Sud America sbarcata nel porto di Livorno ad opera della cosca calabrese». (rds)
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