La discussione di qualche giorno fa nei pressi di Camigliatello sul saggio di Vittorio Cappelli I laghi della Sila, la grande trasformazione dell’Altopiano, Sileno edizioni, 2021 ha fornito anche l’occasione di mettere in evidenza alcuni aspetti della situazione calabrese: politica, sociale, culturale.
Riprendendo, tanto per iniziare, tratti, tipicamente ma non esclusivamente estivi, che ricorrono puntualmente in merito a che farne della Calabria e i motivi della sua particolarità nel panorama dell’intero Mezzogiorno.
Lo spirito nazionale unitario degli anni in cui si pensarono e si fecero gli impianti idrici a uso plurimo in Calabria da tempo è andato via via progressivamente e inesorabilmente scemando: è questo il primo spunto di riflessione. Che prende le mosse dalla lettura di una storia che risale a più di cento anni fa, quando un ingegnere lombardo, costruttore di dighe in tutto il mondo, convinse il governo di Giolitti e Nitti, il sistema bancario settentrionale, la migliore tecnocrazia del paese a investire soldi, intelligenze e know-how, nel sud, nella Calabria. C’era tutto quanto occorreva, intorno ai 1200 metri sul livello del mare: terre in mano al latifondo, superfici disboscate, acqua in quantità, gole strette, che dominavano le pianure del crotonese da bonificare e irrigare, proteggere dalle alluvioni, avviare allo sviluppo (qui le immagini storiche dall’archivio Enel sulla realizzazione della diga di Arvo). E il paese rispose allo stimolo dell’ingegnere lombardo, Angelo Omodeo, che anticipò il suo progetto con uno scritto che titolò La soluzione tecnica del problema meridionale, pubblicato su una rivista di chiara impronta socialista. Il paese seppe rinvenire le ingenti risorse necessarie, coinvolgere la Società Meridionale di Elettricità, cambiare letteralmente il volto di ettari ed ettari della grande selva mediterranea in un crogiolo di genti che a migliaia accorsero e si mescolarono nella grande impresa.
La presenza della casa reale alla inaugurazione degli impianti, l’accorrere di personalità come Guglielmo Marconi, la premessa e la promessa che sarebbero sorte intraprese industriali laddove vinceva la malaria, che le alluvioni e le frane si sarebbero arrestate, che la modernità avrebbe contagiato anche quel lembo di terra nel sud, denotavano un percorso virtuoso e unitario, non predatorio né assistenzialista.
Emerse distintamente come il pubblico e il privato, l’economia e la scienza, la tecnica e la sociologia fossero in grado di creare le condizioni perché, nascesse un “paesaggio” antropico oltre che naturale in grado di veicolare le nostre terre verso un futuro diverso, migliore.
Bisognava ovviamente proseguire lungo quell’itinerario, interrotto, è vero, per la saldatura fra regime fascista e potentati latifondisti e agrari, retrivi e attenti alla conservazione di privilegi secolari, ma anche perché la politica non seppe ritrovare al suo interno né modelli né meccanismi utili al progresso, né tanto meno la forza per esercitare un suo intervento egemonico. Prevalsero egoismi e poteri di segno evidente, quella stagione, per quanto indelebile, non fu portata a compimento.
Il Mezzogiorno, è stato scritto, non è un solo Mezzogiorno ma diverse realtà non immediatamente ricomprensibili all’interno di una visione unitaria, sta tutta in piedi comunque la questione del perché Puglia, Basilicata e così via abbiano in qualche modo intrapreso da tempo vie virtuose e la Calabria no. C’entrerà qualcosa l’asprezza del paesaggio, l’ombrosità del carattere, la contrarietà verso l’associazionismo, un tessuto civile e produttivo oltre che insediativo gracile-numerosi sono quelli che si sono misurati nell’indagine-fatto sta che fra i tanti c’è chi rimpiange equilibri arcaici, si strugge per le condizioni in cui le nostre terre erano un “paradiso in terra”, insegue modelli propri del “piccolo è bello”.
Eppure, anche se flebili e ancora poco ascoltate, si levano qua e là voci di tono e timbro diversi: le voci di chi riflette e incita in direzione di scenari legati all’industria, a settori produttivi del terzo millennio, a liberarsi di zavorre, ancore vere e proprie, che rischiano di farci affogare.
Andare alle elezioni di settembre significherà occuparsi di questo: scegliere programmi e candidati che sappiano parlare ai calabresi il linguaggio non della recriminazione e della promessa demagogica ma quello del futuro, collegandoci al mondo con il volto di chi abbia credibilità e autorevolezza: stare nello Stato unitario significa non recriminare né protestare, ma comporta dignità e responsabilità, affermazione di diritti, rispetto di doveri.
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