Scriveva il poeta austriaco d’origine boema Rainer Maria Rilke in “Lettere milanesi”: «nasciamo, per così dire, provvisoriamente in un luogo; è a poco a poco che componiamo in noi il luogo della nostra origine, per rinascervi in un secondo tempo e ogni giorno più definitivamente”. A significare che si appartiene sempre a un luogo – i tedeschi, con una parola intraducibile, lo chiamerebbero “heimat” – anche se non siamo capaci di riconoscerlo subito. Occorrono a volte anni di viaggi, peregrinazioni, partenze e ritorni, prima di aver ben chiaro dove desideriamo restare. Restare è un verbo di etimologia latina: “re-stare” ossia fermarsi, arrestarsi, non procedere oltre. Usato nella sua accezione tradizionale implica stanzialità, staticità; e quindi, per forza di cose, evoca una sorta di anacronistico immobilismo.
Ma il restare è una caratteristica dell’Homo sapiens, dacché, con la rivoluzione neolitica, da cacciatori e raccoglitori nomadi ci trasformammo in contadini ed allevatori stanziali. Con l’avvento della modernità ciò che un tempo era eccezione, ossia il viaggiare, lo “spaesarsi”, è divenuto regola. Ne sono prova l’emigrazione storica, le migrazioni contemporanee, ma anche i viaggi, il turismo e gli spostamenti per lavoro. Il filosofo francese Michel Onfray, in “Filosofia del viaggio” giunge a dare una connotazione politica al contrasto fra stanzialità e nomadismo: la prima avrebbe una connotazione conservatrice e nazionalista, il secondo ne avrebbe una progressista e cosmopolita. E Onfray finisce col ricordare che nell’accezione comune la condizione dei senza fissa dimora è correlata al peccato, alla colpa, all’errore, secondo la morale cristiana che risale alla condanna ad errare perennemente sulla Terra comminata da Dio contro Caino dopo l’uccisione di Abele.
E invece, “restare” non è un verbo passatista e negativo: restare è una delle condizioni possibili dell’uomo rispetto a un luogo. E questa condizione non è unica ma si declina in molti modi differenti. Per questo, forse, Vito Teti, antropologo, accademico, autore di una quantità di bei libri, fra saggi e narrazioni (fra i tanti: “Il senso dei luoghi”, “Maledetto Sud”, “Fine pasto”, “Nostalgia”, “Pietre di pane”, “Homeland”, “La nostalgia”), ha infine deciso di dedicare un intero volume della collana “Vele” di Einaudi a quel che egli, già da tempo, chiama, con un neologismo, “restanza”.
Restanza è, per Teti, un pretesto linguistico per spiegare che fra il restare ed il partire, fra la stanzialità e il nomadismo vi sono molte e differenti vie di mezzo, che consentono a chi resta in un luogo di vivere eticamente questa sua condizione senza rinunciare all’”erranza”, che è l’apparente contrario della restanza. Il succo poetico (perché in Teti vi sono sia un’etica che una poetica della restanza) è già nell’incipit del libro, che, volutamente, richiama quello del famoso libro di Claude Lévi Strauss “Tristi tropici”, nel quale il grande etnologo se la prendeva con i viaggi ed i viaggiatori: «Amo e odio. Una tensione dialettica segna il mio essere nel mondo, un pasoliniano scandalo della parola o, forse, la fecondità di un contrasto irrisolto. Amo i miei luoghi e, a volte, odio restarvi e vorrei disseminarmi in tutti i luoghi del mondo; avverto spesso la frustrazione del restare per cambiare un mondo che non sembra voler cambiare, che anzi sembra scomparire e morire giorno dopo giorno, ed ecco che mi accingo a raccontare il senso, il disagio, la bellezza del vivere nel luogo da cui osservo il mondo».
Cosa vogliamo farne, allora – sembra chiedersi Teti – della relazione intima, profonda fra noi ed il luogo della nostra origine (per usare la suggestione rilkiana)? È un dilemma che da sempre affligge gli uomini e le donne del Sud, di quella che Ernesto De Martino chiamava “La terra del rimorso”. Laddove la parola “rimorso” inerisce al cattivo passato, al rancore, alla rivalsa. Laddove il “rimorso” è esattamente il Sud nella sua cifra più comune, quello che ci ossessiona con l’eterno ritorno dei suoi mali. Ma il Sud non è una cosa sola. Il Sud è la quintessenza del contrasto: croce e delizia, bruttezza e bellezza, ombra e luce (nel senso che a questi due termini dà Carl Gustav Jung), afflizione e tenerezza.
Nel libro – che dal Sud si estende al mondo intero –, Teti prova a scardinare il luogo comune secondo cui chi resta accetta lo status quo, rinuncia al cambiamento, alla partenza, all’erranza. E lo fa non solo analizzando i fenomeni, ma anche narrando ricordi, aneddoti, casi di studio della sua lunga carriera di antropologo (è stato professore ordinario di Antropologia culturale all’Università della Calabria). Il libro di Teti si inserisce così, perfettamente, in un filone della letteratura antropologica che non è semplice saggistica ma è, prima di tutto, narrazione, e quindi pathos, sentimento, emozione. Senza mai perdere il rigore scientifico. Esattamente come accade nei libri dei già citati Lévi Strauss e De Martino. Il risultato è che il libro si legge come un lungo, fitto, denso, appassionato ed appassionante racconto. Sino alla conclusione, dove l’autore condensa e riassume la propria visione della restanza: «Mi oriento ovunque vada, ma mi sento a mio agio nei paesi dell’interno”, che vedono il mare, il cielo e le nuvole, tra la gente che, pur senza istruzioni per l’uso, afferma una restanza come stile di vita, come la propria forma dell’abitare, come atto politico, come resistenza ai fenomeni di devastazione dei luoghi, come possibilità di rigenerarli. Mi sento a casa (a volte in maniera perturbante e dolente) tra quanti hanno esercitato e conoscono il diritto di restare come principio di libertà, non per isolarsi, ma per inscrivere la propria piccola patria nel cuore del mondo».
* avvocato e scrittore
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