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la riflessione

«Noi e loro»

Il tema fondamentale che oggi ci avvolge – e ci travolge -, non soltanto sul piano del processo e delle sue garanzie, ma, più in generale, sul grande tema dell’attuazione dei diritti umani, è quello…

Pubblicato il: 20/02/2023 – 15:13
di Nunzio Raimondi*
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«Noi e loro»

Il tema fondamentale che oggi ci avvolge – e ci travolge -, non soltanto sul piano del processo e delle sue garanzie, ma, più in generale, sul grande tema dell’attuazione dei diritti umani, è quello che, già nel 2017, ci portò ad aprire, proprio qui a Catanzaro, un più ampio dibattito internazionale sulla crisi della tolleranza.
Lo scrivo perché sento parlare di cose, nell’anno 2023, che Beccaria scrisse nel 1700 e sento alcuni riempirsi ancora la bocca dei principi del diritto penale liberale.
Non che ciò sia sbagliato ma a me pare che questo punto di vista sia decentrato rispetto ai temi della modernità, i quali meritano di essere affrontati in maniera diversa ed in una prospettiva globale, partendo appunto dai diritti umani e dalla loro attuazione.
Direi, con Ferrajoli, come «sistema di limiti e difese da ciò che è intollerabile».
Certo è giusto richiamare le basi del pensiero illuminista: «Una crudeltà, consacrata dall’uso della maggior parte delle nazioni, è la tortura del reo mentre si forma il processo, o per costringerlo a confessare un delitto, o per le contraddizioni nelle quali incorre. Un uomo non può chiamarsi reo prima della sentenza del giudice, né la società può togliergli la pubblica protezione, se non quando sia deciso ch’egli abbia violato i patti, co’ quali gli fu accordata. […] Non è nuovo questo dilemma: o il delitto è certo, o è incerto: se certo, non gli conviene altra pena che la stabilita dalle leggi, ed inutili sono i tormenti, perché inutile è la confessione del reo; se è incerto, non devesi tormentare un innocente, perché tale è, secondo le leggi, un uomo, i cui delitti non sono provati» (Cesare Beccaria, Dei delitti e delle pene).
Essendo però trascorsi oltre due secoli, mi vado domandando se la riflessione attuale può ridursi ad un confronto su «un inganno… ed abusi da parte dei professionisti del bene«, oppure essa meriti un ragionamento aggiornato ai tempi che l’umanità intera vive, sottraendo il dibattito ad una dimensione più angusta.
E comincerei da un primo argomento: chi si pone nell’alveo della cultura garantista dovrebbe ricordare ciò che Ferrajoli definisce «le due facce della stessa medaglia»: ossia la crisi della tolleranza di ciò che i diritti fondamentali impongono di tollerare e la crisi della tolleranza di ciò che i diritti fondamentali impongono di non tollerare.
Sarebbe un discorso lungo ma cercherò di sintetizzare al massimo.
I diritti fondamentali, infatti, sono diritti di non lesione; ecco, chiariamoci bene: a questi diritti corrispondono divieti, quindi, limitazioni dei poteri.
Cos’è, quindi, fra i molti altri, il diritto alla libertà personale?
Concisamente esso è un diritto alla propria identità personale.
Riguardati questi diritti da un punto di vista diverso, rispetto ai valori essenziali contenuti nella nostra Costituzione, essi assumono caratteri diversi e lo sguardo da un punto di vista altro li trasforma.
Pensiamo, per esempio, ai trattamenti inumani e degradanti nelle nostre carceri (non solo il 41 bis); è certo che ci si trovi davanti ad una crisi della tolleranza di ciò che i diritti fondamentali impongono di tollerare, ma il modo di affrontare il tema è quello di modificare la prospettiva (come ha insegnato la Sentenza Torreggiani) per tentare di fronteggiare le incongruenze, le contraddizioni, della nostra legislazione nazionale.
Non è tanto un problema di culture contrapposte nel ristretto ambito di un confronto-scontro tra due opinioni sul funzionamento della giustizia penale italiana, quanto, piuttosto, questi fenomeni impongono di aprirsi ad una concreta attuazione delle norme convenzionali europee nel nostro ordinamento nazionale, così come ratificate in Italia.
Se muta il punto di vista anche la realtà potrà essere trasformata (Leibniz).
Occorrono, quindi, soluzioni che consentano l’applicazione diretta di norme convenzionali (siccome interpretato dalla Corte CEDU) nei processi penali italiani, capaci di sganciare alcune norme presenti nel nostro sistema penale e processuale dalle «tossine dell’inquisitorietà» (Delfino Siracusano).
Nel ché poi consiste l’essenziale differenza tra noi e loro.
Noi, arricchiti dalla rivoluzione illuminista ma anche trasformati dalla forza del pensiero cattolico, perspicuamente presente nella Carta, capaci di costruire un ordinamento penale coerente con il patto sociale sul quale siamo nati e ci siamo evoluti.
Loro, coloro che le regole del patto sono pronti a violare, attraverso processi sommari e senza garanzie.
Certo, capisco che la tentazione è forte: quella di trasformare un dibattito sullo stato di attuazione dei diritti umani nella giustizia penale, in un confronto sugli «abusi dei professionisti del bene», facendo così prevalere il giudizio sulle condotte abusanti rispetto a quelle virtuose, confondendo la generale crisi della tolleranza sui diritti fondamentali, con l’abuso e l’inganno di alcuni verso altri.
Capisco anche che i garantisti sentano di scendere in campo attraverso rivendicazioni che attengono alla c.d. “politica giudiziaria” sub specie di salvaguardia dei diritti dei cittadini, ma i giuristi, a mio modesto modo di vedere, dovrebbero agire in tutt’altro modo: prospettare soluzioni tecniche capaci di elevare il tono dello scontro in atto, volgendo lo sguardo verso forme di concreta applicazione di norme ed interpretazioni (per me convenzionali) che consentano un effettivo superamento di letture ideologiche.
Nel terzo millennio non è più tempo di denunziare ma di cambiare.

*Avvocato cassazionista.
Professore a contratto di Genesi e dinamiche delle organizzazioni criminali nel Dipartimento dì Giurisprudenza, Economia e Sociologia dell’Università degli Studi “Magna Graecia” di Catanzaro.

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