COSENZA Il 57% degli enti locali del Mezzogiorno ha un livello di offerta di servizi inferiore a quella media degli enti con caratteristiche simili. La persistenza dei divari infrastrutturali e nell’offerta dei servizi rispetto al Nord riflette in parte una carenza di risorse che si è accentuata nel decennio precedente la pandemia per effetto delle politiche di consolidamento dei conti pubblici. Il dato emerge dal rapporto “Il divario Nord-Sud: sviluppo economico e intervento pubblico” di Banca d’Italia presentato all’Unical. «Nelle due aree del Paese vi sono, dunque, divari nei diritti di cittadinanza», spiega la professoressa Rosanna Nisticò, docente di Economia applicata all’UniCal.
«Quello che emerge, in estrema sintesi, da questo rapporto è che il Mezzogiorno sta attraversando contemporaneamente tre crisi capitali: economica, di disuguaglianza e infine demografica», sostiene Nisticò. Ovviamente queste tre crisi non sono separate ma si autoalimentano e si rafforzano «perché ovviamente la disuguaglianza si riflette sia sul campo economico ma anche su altri aspetti della qualità della vita come l’istruzione, la sanità, la giustizia, la sicurezza personale, l’accessibilità dei luoghi» e questo «determina una scarsa attrattività, sia per coloro che nascono in Calabria e poi decidono di emigrare altrove e sia per chi sceglie di non raggiungere nella nostra regione».
Secondo Nisticò, «la bassa qualità della vita nel Mezzogiorno, rispetto ad altre aree del Paese, non consente neanche di trattenere le persone immigrate e dunque tamponare il declino demografico». Quali sono gli strumenti più idonei a contrastare la crisi demografica? «Possiamo aggredire il problema in due modi o per via esogena, cercando di trattenere le persone che vogliono arrivare nel nostro Paese e quindi gli immigrati, oppure per via endogena cioè aumentando le nascite». Su quest’ultimo punto, Nisticò precisa: «Il progetto di un figlio chiaramente non è soltanto uno slogan, ma ha bisogno di politiche concrete non solo creando le migliori condizioni di lavoro ma anche favorendo migliori condizioni politiche per la famiglia».
L’argomento è di stretta attualità e il dibattito è rovente. L’autonomia differenziata «preoccupa molto» la professoressa Nisticò. «Alcuni presidenti di Regioni meridionali hanno votato a favore dell’autonomia differenziata prima ancora di stabilire la definizione di livelli essenziali di prestazione (Lep), è un nodo fondamentale». Cosa non la convince? «Per chi studia i divari territoriali, l’autonomia differenziata è una variabile, una sorta di mina vagante e spaventa moltissimo se pensiamo a come sarà attuata e come garantirà a tutti i cittadini medesima fruizione di qualità e quantità dei servizi pubblici essenziali».
Approvato in tempi stretti e con l’urgenza di garantire al Paese la ripartenza dopo la devastante crisi pandemica, il Pnrr se da una parte consente di poter contare su danari e risorse dall’altra parte, invece, lascia qualche dubbio sul reale contributo in relazione al piano dei bisogni. «Preoccupa la mancanza di una visione complessiva di sviluppo del Paese. Basta avere i soldi per avviare i cantieri? Servono a ridurre le diseguaglianze nei bisogni dei cittadini?», si chiede Nisticò. «Per esempio, sappiamo che il riequilibrio territoriale è un obiettivo trasversale del Pnrr e dunque gli investimenti potrebbero essere orientati a soddisfare questa esigenza. Ma in quale misura? E soprattutto, troveremo le risorse per far sì che non rimangano solo i manufatti, che non restino soltanto i centri di medicina senza medici ed infermieri che li vadano a popolare?».
(f.benincasa@corrierecal.it)
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