COSENZA «Io credo nella scienza». Antonio Serra, presidente del Cosenza calcio nel 1989, non ha più dubbi. Nel corso degli anni ha pensato che la morte di Donato Bergamini fosse stata causata da un’incidente, scaturito al termine di una lite con Isabella Internò. Col tempo, però, le sue convinzioni sono cambiate. «La scienza che cosa ci dice? – ha dichiarato ai giornalisti dopo l’udienza in corte d’Assise che si è tenuta oggi al tribunale di Cosenza –, ci dice che Bergamini è stato ucciso». Nel corso della sua testimonianza (era assente in aula l’unica imputata Isabella Internò) l’ex massimo dirigente della società silana ha ripercorso gli eventi di quel drammatico 18 novembre 1989, ribadendo più volte la sua incredulità di fronte alla teoria del suicidio. «Denis – ha affermato Serra – non aveva mai dato segnali che ci spingessero a pensare a un gesto di quella gravità. Era un ragazzo serio, uno dei più professionali che il Cosenza calcio abbia mai avuto. Roberto Ranzani (il direttore sportivo dell’epoca, ndr) che lo conosceva meglio di me, ha sempre pensato la stessa cosa. Io inizialmente ipotizzai un incidente al termine di un litigio con la fidanzata, tant’è che prendemmo un avvocato, Manfredi, per seguire il caso. L’obiettivo era quello di avere un risarcimento insieme alla famiglia per la morte del ragazzo. Ma le sentenze che confermarono la teoria del suicidio bloccarono ogni cosa. Il risarcimento, infatti, sarebbe stato possibile in tutti i casi, tranne proprio per quello di suicidio. Dopo l’inizio di questo processo ho totalmente cambiato idea: io ho sempre creduto nella scienza».
La sera del 18 novembre, appena giunto al Motel Agip per la consueta cena pre-partita, Serra venne informato dal ds Ranzani che Bergamini era morto suicida. La notizia l’aveva data per telefono Isabella Internò all’allenatore Gigi Simoni. «Io in quel momento non sapevo neanche che Denis non fosse presente al Motel – ha rivelato Serra –. Rimasi colpito, sia perché è sempre stato puntuale e anche perché quello stesso pomeriggio lo avevo visto. Ricordo vagamente che quella sera la ragazza volle parlare al telefono anche con Ciccio Marino. Subito dopo Ranzani e Pini partirono per Roseto Capo Spulico». Quella stessa sera a casa di Serra arrivò anche una telefonata dal numero della famiglia Internò. Né lui, né la moglie erano presenti. Rispose al telefono la tata. Serra, successivamente, provò a richiamare quel numero senza però ricevere risposta. Ma, immediatamente dopo la tragedia, il presidente del Cosenza, insieme a Ranzani, si recò a casa della famiglia Internò per avere maggiori informazioni su ciò che era accaduto a Roseto. «Premetto che neanche la conoscevo Isabella Internò – ha detto oggi Serra –, anzi, non sapevo proprio che fosse la fidanzata di Bergamini. Lei continuava a ripetere che Donato si era suicidato. Le chiesi “sei sicura?”, probabilmente allo scopo di farla avvicinare alla nostra teoria, ma lei confermò tutto. Io e Ranzani, però, non eravamo assolutamente convinti, pensavo sempre che si fosse trattato di un incidente al termine di un litigio. Lo pensai anche dopo aver visto il cadavere all’obitorio, il volto era pulito e mi sembrò strano considerata la descrizione che mi era stata fornita sull’incidente. Ricordo che esternammo alla ragazza il nostro parere, ma lei fu irremovibile». Per quanto riguarda la polizza assicurativa e il risarcimento alla società e alla famiglia per la morte prematura del calciatore, Serra ha confermato il tentativo, tramite l’avvocato Manfredi, di incassare la cifra di un miliardo e 200 milioni per la società e circa 250 milioni per la famiglia, «il suicidio, però, bloccò tutto». Su questo particolare, in aula è stato fatto ascoltare un breve audio di una conversazione telefonica risalente al 2017, tra Serra e Carlo D’Ippolito, all’epoca dei fatti consigliere del Cosenza calcio. In quella circostanza l’ex patron rossoblù disse a D’Ippolito che le indagini sulla morte di Bergamini erano state fatte con i piedi, «ci sono cose che non funzionano», «gli unici fottuti – ha detto ancora riferendosi al risarcimento mancato – siamo stati noi e la famiglia».
«Anni dopo la tragedia – ha proseguito Serra – incontrai Michele Padovano in un ristorante di Torino. Lui mi disse che secondo lui Bergamini era stato ucciso. La mia risposta fu lapidaria: “Mi auguro che tu vada a dirlo a chi di dovere”. Successivamente, a Cosenza, incontrai anche Donata Bergamini. Facemmo colazione insieme e le dissi che non doveva credere a quello che si diceva in giro sulla mafia e sulla criminalità organizzata, visto che Denis era sempre stato un ragazzo per bene». L’ex presidente del Cosenza ha parlato anche del mancato trasferimento di Bergamini al Parma nell’estate del 1989. «Inizialmente l’interesse del Parma era forte – ha svelato – Bergamini era convinto di partire. Sul finire del calciomercato, però, la pressione del Parma si raffreddò, non erano certi di far diventare Bergamini un titolare della squadra. E allora Ranzani mi chiese di fare al calciatore una controfferta, alzando la cifra del contratto. Ranzani convinse Bergamini a non partire dicendogli: “Vuoi fare la comparsa a Parma o il protagonista a Cosenza?”. A quel punto Donato restò». Incalzato dalle domande dell’avvocato della difesa Angelo Pugliese, l’ex numero uno della società rossoblù è tornato anche su un episodio riguardante Michele Padovano, trovato una sera in auto con una donna dalle forze dell’ordine. Pugliese ha chiesto a Serra se si fosse recato in Questura per andare in soccorso di Padovano insieme al boss Antonio Paese. «Io vado in questura con Paese?», ha replicato Serra con ilarità. «Direi proprio di no – ha proseguito –. Paese era un tifosissimo del Cosenza ma in questo caso non c’entrava nulla. Così come per la vicenda delle estorsioni che la società ha subito. Almeno non mi risulta che in quel procedimento lui fosse tra gli imputati».
Nel corso dell’udienza di oggi è stato ascoltato anche Paolo Fabiano Pagliuso, presidente del Cosenza calcio dal 1994 al 2003. «Prima che Serra diventasse presidente nel 1987, lui era stato vicepresidente della società guidata dall’avvocato Carratelli. «Nel 1989 – ha ricordato Pagliuso – ero un socio e non avevo più incarichi dirigenziali visto che mi ero dimesso dalla carica di vicepresidente. Quella sera ero anch’io al Motel Agip quando Ranzani ci disse che Bergamini era morto». Dopo aver riascoltato alcune sue precedenti dichiarazioni, Pagliuso ha confermato di essere a conoscenza, a quel tempo, del fidanzamento di Bergamini con una ragazza delle sue parti, «Ranzani e l’allenatore Ferroni me lo dicevano che era fidanzato lì, addirittura che stava per sposarsi». Pagliuso ha anche ammesso di aver incontrato più volte Donata Bergamini, anche a Ferrara, città in cui i suoi tre figli hanno studiato. «Quando ero già presidente del Cosenza – ha ricordato –, spinto da Ranzani che nel frattempo era diventato ds della Spal, acquistai anche quella società. Ero molto legato a quel posto».
L’avvocato di parte civile Fabio Anselmo ha letto il testo di una intercettazione telefonica del 2018 tra lo stesso Pagliuso e Santo Fiorentino, dirigente accompagnatore in quegli anni del Cosenza calcio. Nella conversazione, Fiorentino dice a Pagliuso “Questo (Bergamini, ndr) lo hanno ammazzato prima” e Pagliuso risponde “meglio se non ne parliamo per telefono”. Lo stesso Pagliuso, in udienza, ha giustificato quella frase rivelando che non gli andava di essere intercettato dopo le sue vecchie vicissitudini giudiziarie. «In quel momento – ha detto –, ma anche adesso, ero arrabbiato con la giustizia perché mi avevano fatto fare nove mesi di carcere senza motivo (in riferimento all’inchiesta “Lupi”, ndr). Mi sono stati fatti dei danni irreparabili, sia moralmente che economicamente. Ce l’avevo e ce l’ho ancora con il procuratore Facciolla, mi ha rovinato la vita. Da quel processo sono uscito assolto perché il fatto non sussiste». Eugenio Facciola era pm della Dda di Catanzaro ai tempi del processo “Lupi” ed è stato l’artefice, in quanto procuratore di Castrovillari, della riapertura del caso Bergamini.
Assente giustificato Bonaventura Lamacchia (ex amministratore delegato e presidente del Cosenza calcio), oggi sul banco dei testimoni è salito anche il segretario della società silana Antonio Covino. Quest’ultimo ha parlato in maniera più approfondita delle ipotetiche polizze assicurative da far scattare per la morte di Bergamini. «C’erano più assicurazioni – ha detto l’uomo – una con la Lega e l’altra con la “Previdente Assicurazioni” che avrebbero coperto economicamente in caso di decesso dei calciatori. Nel caso di Bergamini, non ci venne liquidato nulla. Se non si fosse trattato di suicidio, il Cosenza avrebbe incassato un miliardo e 200 milioni, mentre la famiglia del calciatore avrebbe preso 250 milioni di vecchie lire». Covino ha parlato anche dell’accordo con la società-attività commerciale di articoli sportivi “Giocasport Franca”, gestito da Santo Fiorentino, dirigente della società del Cosenza calcio e cognato del boss Antonio Paese. «Alcune volte – ha confermato – la squadra si riforniva lì, in accordo con lo sponsor, soprattutto per quanto riguarda scarpette, guanti da portiere e altri accessori». La prossima udienza del processo è prevista per il 23 marzo. Sarà sentita Donata Bergamini, sorella del calciatore.
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