COSENZA E’ uno degli eventi più attesi dai cosentini: la Fiera di San Giuseppe è orgoglio e tradizione. Un evento che spinge nella città dei bruzi centinaia di commercianti e migliaia di turisti. Un’occasione che diventa ghiotta anche per la criminalità organizzata cosentina, che come dimostrato dalle recenti inchieste condotte dalla Dda di Catanzaro e dalle confessioni dei collaboratori di giustizia, non risparmia l’imposizione della tassa non dovuta a giostrai e ambulanti. Dal clan Perna-Pranno, durante gli anni 80′, a lucrare sulla Fiera di San Giuseppe per un breve periodo è stata anche la famiglia Bruni meglio nota come “Bella-Bella”. Poi il racket è passato sotto il controllo del gruppo confederato Lanzino-Cicero, mentre – negli ultimi anni – il business ha riempito le tasche della cosca Rango-Zingari, come ricostruito dagli investigatori nell’inchiesta “Reset“, coordinata dalla Distrettuale di Catanzaro.
Delle intimidazioni accompagnate alle insistenti e minacciose richieste di pagamento del pizzo, abbiamo già parlato in un precedente articolo (qui). Di nuovo, segnaliamo i racconti e le confessioni rese lo scorso 1 agosto 2023, dinanzi ai magistrati catanzaresi, da parte del neo pentito cosentino Francesco Greco. Quest’ultimo racconta i dettagli di un episodio di aggressione «a cui ho preso direttamente parte e posso riferire di quello avvenuto nel 2018 durante la fiera di San Giuseppe ai danni di un rivenditore ambulante di panini». Il collaboratore di giustizia, ex «luogotenente » di Roberto Porcaro, ricorda «che dissi al commerciante che “doveva mettersi a posto” (…) mi rispose che era a posto con Sergio Del Popolo detto “U Sapunaru”» e Gianfranco Sganga. «Non soddisfatto della sua risposta gli diedi due schiaffi e gli dissi che i soldi dovevano andare a Perna, Castiglia, Alfonsino Falbo, Sergio Raimondo e tutti gli altri “amici”». E chi sono questi “amici”? «Tutti gli altri esponenti della Confederazione». Insieme al pentito parteciparono «Iva Barone (oggi collaboratore di giustizia), Gennarino Presta ed Antonio Marotta detto “Capicedda”.
La notizia dello schiaffo ricevuto dall’ambulante già sotto scacco del duo Del Popolo-Sganga si sparse velocemente negli ambienti della mala bruzia. «Quella stessa sera io, Antonio Marotta, Luigi Abbruzzese, Alfonsino Falbo e Roberto Porcaro – racconta Greco – ci recammo a casa di Gianfranco Sganga per chiarire la vicenda della estorsione al venditore di panini». Gli animi sono tesi e Sganga «chiese personalmente chi fosse stato ad aggredire il commerciante, ma io risposi che non sapevo niente di questa vicenda». Subito dopo fecero il loro ingresso in casa anche gli altri compari di Greco. «Sganga dal canto suo riteneva che il provento estorsivo versato dal commerciante spettasse a lui a titolo di compenso per il contributo offerto al pagamento degli stipendi elargiti al gruppo Perna». Un’affermazione che trovò la ferma opposizione di Porcaro, Falbo e Abbruzzese. «Replicarono che il fatto che lui pagasse gli stipendi non lo legittimava a riscuotere le estorsioni in quanto i proventi delle stesse dovevano confluire Confederazione consentendo ai vari gruppi di prendervi parte». Quest’ultima confessione del pentito Greco ha duplice valenza. Da un lato, consente di annotare la presenza di malumori all’interno dei clan, dall’altro – invece – permette ai magistrati di acquisire una informazione utile, a sostegno della tesi accusatoria, sulla presunta esistenza della ‘ndrangheta confederata cosentina. Un sistema forte del coinvolgimento di sette diversi gruppi criminali, pronti a far confluire i proventi delle attività illecite nella “bacinella” comune. Una tesi sostenuta da più soggetti gravitanti nella galassia criminale cosentina, ma respinta con forza da Francesco Patitucci, ex reggente del clan degli “Italiani” e oggi al 41 bis. Il boss, nel corso di una udienza del processo scaturito dall’inchiesta denominata “Bianco e Nero”, ha avuto modo di prendere la parola disconoscendo tale “confederazione”. «Non ne ho mai sentito parlare». (redazione@corrierecal.it)
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