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la riflessione

La restanza di Teti nel vocabolario Treccani, appunti per un nuovo conflitto

Una nuova consacrazione per l’antropologo calabrese che del termine è l’ideatore con tutto quello che si porta dietro come pensiero e azione

Pubblicato il: 30/11/2023 – 13:30
di Paride Leporace
La restanza di Teti nel vocabolario Treccani, appunti per un nuovo conflitto

Girovagando tra rete e vocabolari digitali scopro per caso che la parola “restanza” è stata inserita tra i neologismi del Dizionario Treccani. Una nuova consacrazione per l’antropologo calabrese, Vito Teti, che del termine è l’ideatore con tutto quello che si porta dietro come pensiero e azione.
Da un punto di vista bibliografico il riconoscimento non è legato al più recente successo editoriale dello scrittore di San Nicola da Crissa, appunto “La restanza”, ultimo approdo di una lunga ricerca condita da religione del dubbio, ma fa riferimento al più datato “Pietre di pane”. Un’antropologia del restare, definito dal terronista Pino Aprile “trascuratissimo fenomeno” di quelli che restano. E la citazione non tragga in inganno, perché Teti e Aprile pur se condividono quelli che restano, ho fondata convinzione che vadano per altre vie su metodi e risposte.
La Treccani oltre a rintracciare isolate attestazioni trecentesche sulla Restanza ci indica anche le preziose speculazioni positive sulla parola, compiute sia da monsignor Pompili in ambito ecclesiastico e anche le riflessioni da una ricerca del Censis.
Il nocciolo del neologismo sta nell’applicazione fatta da Teti “con particolare riferimento alla condizione problematica del Sud d’Italia, la posizione di chi decide di restare, rinunciando a recidere il legame con la propria terra e comunità d’origine non per rassegnazione, ma con un atteggiamento propositivo”. Su nascita e ascesa del termine, segnalo negli stessi ambiti un magistrale intervento dello stesso Teti, spiegarci da par suo com’è nata per caso, la sua magnifica dissertazione.

E nel girovagare in Rete annoto anche che alla prestigiosa Accademia della Crusca non è sfuggita la novità con certosina definizione di dettaglio teggiare il deserto che ci circonda. Se ne rendeva conto anche la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, che nel corso del suo primo discorso con la nuova carica disse: «Ogni campanile è un pezzo della nostra identità da difendere. Penso in particolare a quelli che si trovano nelle aree interne, nelle zone montane e nelle terre alte, che hanno bisogno di uno Stato alleato per favorire la residenzialità e combattere lo spopolamento». Ai buoni propositi non hanno ancora fatto seguito però i provvedimenti da parte di uno Stato che chiude Poste e accorpa scuole in nome delle casse abbastanza vuote. La questione è molto complessa e variegata se anche Milano ha perso dalla pandemia circa 35.000 abitanti a causa del caro affitti. Nel mondo oggi è più semplice scegliersi un altrove da dove fuggire. In Calabria in dieci anni secondo l’Istat, ben 130.000 corregionali si sono trasferiti in Italia e all’estero. Il fenomeno è largamente diffuso tra i paesi che vanno da 1.000 a 10.000 abitanti. Paesi che si popolano nelle vacanze e che spengono le luci del paese presepe per il resto dell’anno.

Foto “Strada degli Scrittori”

La restanza di Teti ha dato da riflettere e da resistere in Calabria e fuori. Una ricerca del 2021 realizzata da Swg in Italia ha scoperto che due giovani su tre che vivono nelle aree interne italiane vogliono restarci per poter meglio prendere il proprio presente in mano. Sono spesso giovani che si aggregano in comunità operose e che recuperano saperi antichi da offrire al nuovo residente temporaneo che va lentamente modificando il concetto del turista recuperando la figura del viaggiatore che attraverso la Rete scopre luoghi che offrono buona vita.
A Crotone, dopo aver letto un libro di Vito Teti, sette amici che il sabato s’incontravano al bar hanno fondato l’associazione “Io resto” e da qualche tempo le loro iniziative danno senso al loro agire dialogando con i loro amici che erano andati via.
Anche Ruggero Brizzi, bovalinese che vive in provincia di Cosenza, si è lasciato ispirare da Vito Teti, e ha fondato un festival musicale che si svolge d’inverno in paesi spopolati che non poteva che chiamarsi “La restanza”. Lo stesso titolo per il documentario di Alessandra Coppola che nel Salento poco consumistico di Castiglione d’Otranto in 4 anni ha documentato il solito gruppo di amici che prende il proprio destino in mano con agricoltura di prossimità e tecniche di buon vivere con il progetto AgriCulture. «Chi resta ha una missione storica e una responsabilità ineludibile: fare nascere una nuova comunità, resistere all’erosione e alla dissipazione del mondo presente» scrive Vito Teti. Il quale non si crogiola di tanto successo ma continua a interrogarsi se questo pensiero che ha già generato tanto può essere la nuova bussola di un meridionalismo che offre nuova linfa senza essere l’arida contabilità dello Svimez chiuso nella sua aristocratica autorevolezza. Spesso Vito Teti ricorda che «la restanza non è una magia, pronunciare la parola non è risolutivo»; e non è neanche una formuletta di marketing territoriale utile a qualche ufficio promozionale del turismo. Eppure dei geografi ne hanno tratto persino una proposta di governance per offrire nuove prospettive al paesaggio meridionale.
La ricerca di restanza di Teti nasce da lontano. Ho nella mia biblioteca uno splendido volume che si chiama “Le navi che volano”, reportage di viaggio in Calabria effettuato tra il 1973 e il 2002 da Vito assieme a Salvatore Piermarini. Libro fotografico d’altri tempi che guardo quando ho bisogno di restanza calabrese. Le parole a corredo di quelle tavole parlanti le ha scritte a mo’ di introduzione Mario Fortunato, scrittore calabrese che vive il mondo da lontano e che dando un glossario della sua terra annotava parole come “asperità, pudore, ritegno” ma anche “conflitto, scontro, durezza”.
Io non so se un rigassificatore e il Ponte sullo Stretto alimenteranno restanza. Credo però che un nuovo conflitto culturale potrebbe servire a restare. E far tornare alcuni che sono partiti. Perché “Le tradizionali forme di conflitto, lacerazioni, divisioni delle comunità sono scomparse o si sono trasformate in «narrazioni» per lasciare posto a nuove forme di conflitto o magari di coesione”. (redazione@corrierecal.it)

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