COSENZA C’è una causa strutturale del sistema produttivo calabrese a cui si sommano elementi discriminanti. Concause che finiscono per penalizzare le componenti più fragili del mercato del lavoro: le donne. Sono queste in sintesi le spiegazioni che, per Giovanni D’Orio, docente di politica economica all’Università della Calabria, stanno alla base dei divari di genere e che fanno della Calabria una regione che penalizza le lavoratrici. Per il docente dell’Unical, inoltre le donne sono soggette più degli uomini a dover subire abusi nelle contrattazioni. Secondo D’Orio, in particolare, dietro contratti non standard troppo spesso in realtà si nascondono «contratti di lavoro a tutti gli effetti a tempo pieno». E poi ci sono condizioni ambientali in Calabria più che in altre regioni a non facilitare la conciliazione dei tempi di lavoro con la vita privata che finiscono per colpire soprattutto le donne. Un aspetto quest’ultimo sul quale, per il professore, «la Regione può fare molto».
Professore, la Calabria detiene il più basso tasso di occupazione femminile. A cosa è dovuto questo fenomeno?
«Le cause sono molteplici e quasi tutte strutturali, purtroppo. Sicuramente la fragilità del sistema economico e del mercato del lavoro regionale fanno pagare un prezzo altissimo alla componente femminile che vorrebbe lavorare ma che non trova una occupazione. In queste condizioni di partenza, le componenti più fragili, donne e giovani sono quelle che pagano i prezzi più alti. La fragilità del sistema produttivo è poi amplificata dalla peggiore capacità strutturale regionale sui sistemi di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro e dal fatto che i livelli salariali medi (molto bassi), ufficiali ed ufficiosi (la presenza di una componente elevata di lavoro grigio e nero) rende a volte molto variabile l’entrata e l’uscita nel mercato del lavoro, con dimissioni a volte programmate e a volte estorte. Inoltre, spesso le donne sono titolari di contratti di lavoro “non standard” cioè rapporti caratterizzati da una ridotta continuità nel tempo e/o da una bassa intensità lavorativa. In altre parole, contratti a termine e part time involontario. E ad essere coinvolte in queste modalità lavorative – questo ci dicono i dati del 2022 – sono soprattutto le donne: il 27,7% delle occupate sono lavoratrici non-standard contro il 16,2% degli uomini».
E nella fascia di età centrale cioè tra i 25 e i 49 anni la disoccupazione femminile è doppia rispetto alla media nazionale. Ci potrebbe essere dietro, anche un aspetto legato alla scarsa formazione?
«Quello della formazione è un aspetto complesso. È vero che nel Mezzogiorno la percentuale di giovani laureate è più bassa della media nazionale e che la Calabria su ciò non fa eccezioni. È anche vero però che non si osserva un differenziale di genere fra uomini e donne laureate che possa spiegare il grande divario occupazionale esistente. Una prima questione riguarda sicuramente il matching fra domanda e offerta di lavoro rispetto al quale, le donne calabresi con titolo di studio superiore sono spesso ultra-qualificate rispetto alle opportunità lavorative a loro offerte. La seconda questione riguarda moltissime donne diplomate che, non sono entrate nel mercato del lavoro per ragioni spesso familiari o di carattere motivazionale e che dopo 10, 20 anni, non si sentono più in grado di fare lavori rispetto ai quali avrebbero la formazione necessaria per svolgerli. Ultima questione, è strettamente legata alla formazione professionale regionale che molto spesso non riesce a colmare il gap fra ciò che il mercato del lavoro domanda, in termini di competenze e ciò che viene offerto nei vari corsi di formazione. Per concludere, la formazione continua non è di certo un elemento di forza nella nostra regione, dove soprattutto a seguito della nascita di un figlio le donne non sono messe in condizione di tornare a lavorare proprio per la mancanza di politiche attive volte a favorire la formazione e in alcuni casi, la riqualificazione».
C’è anche una difficoltà per le donne di fare carriera in Calabria. Esiste una discriminante di genere?
«Questo è un problema nazionale atavico che, in mercati locali più fragili come quello calabrese, tende ad accentuarsi. Uno studio di Harvard mette in evidenza come sono più di trenta le caratteristiche per cui le donne vengono criticate e discriminate sul posto di lavoro. Fra queste troviamo accento, età, attrattiva, corporatura, colore, conformità di genere e stile comunicativo. Non bisogna dimenticare anche la questione della maternità, argomento fin troppo attuale e centrale nel mondo del lavoro. Basta una gravidanza o la sola idea di desiderare un figlio per compromettere l’avanzamento della carriera di una donna e aumentare la sfiducia dei capi e dei colleghi. L’intensità di pregiudizi si somma ai problemi affrontati dalle donne all’inizio della carriera, come il fatto di essere prese meno sul serio dai colleghi maschi, tra critiche e differenze di retribuzione. Purtroppo pregiudizi e discriminazioni rimangono nel corso della carriera. Anche nel settore pubblico, dato ancora più grave, (al di fuori della dirigenza in senso stretto), pure in alcuni degli ambiti nei quali la presenza femminile è molto forte, le donne sono comunque segregate (o quasi) all’interno di qualifiche meno elevate. Le lavoratrici sono ancora escluse dai ruoli di vertice, sono occupate spesso in settori e professioni meno pagate, sono relegate alle classiche mansioni che richiamano attività domestiche, di cura, di insegnamento e di segreteria, svolgendo così un ruolo “materno” e questo ovviamente ha i suoi riflessi sulle retribuzioni. Gli stipendi delle donne sono mediamente più bassi di quelli degli uomini».
Inoltre c’è un dato che risulta sconvolgente: l’alto numero di dimissioni tra le donne. In un anno quello registrato in Calabria è record. Come interpretarlo?
«Questo dato molto significativo va ricollegato, a mio avviso, a due delle questioni precedentemente analizzate: i cosiddetti contratti di lavoro “non standard” e la bassa presenza di sistemi di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro. È vero che il mercato del lavoro debba mantenere una certa flessibilità per poter funzionare ma la presenza di strumenti non standard (ad esempio tirocinio, apprendistato, lavoro intermittente, part time, lavoro supplementare, etc.) è troppo spesso abusata e troppo spesso in realtà nasconde (nella forma di lavoro grigio) contratti di lavoro a tutti gli effetti a tempo pieno. Ciò va detto perché altrimenti perderebbe un po’ di valore la seconda delle cause citate (strumenti di conciliazione) in quanto, ove l’impegno orario e le funzioni fossero in realtà quelle previste nel contratto “atipico”, il tempo per la cura della famiglia ad esempio potrebbe essere sufficiente. In realtà non è così. Nei fatti le donne spesso si trovano a dover fare un numero di ore che non sono conciliabili con altre attività di vita, per livelli salariali (grigi) che non permettono spesso il ricorso al mercato privato (asili nido, asili, baby sitter etc.) per ottemperare a funzioni basilari necessarie nell’ambito di una vita familiare piena. Data questa situazione, in ambiti familiari spesso irregolari anche nell’ambito del lavoro maschile, è la donna quella che prima rinuncia al lavoro data la scarsa convenienza economica e le dinamiche culturali radicate che rappresentano ancora una famiglia in cui fra uomo e donna, è la donna che si occupa in via prevalente di figli e casa. Le neo-mamme continuano a lasciare il mondo del lavoro per i carichi familiari. Le due questioni sollevate, come si è capito, vanno in qualche modo a braccetto. Occorrono sicuramente mezzi e strumenti di conciliazione in misura adeguata e più capillare ma, allo stesso tempo, occorre rendere il “lasciare il lavoro” più costoso, e ciò può essere fatto con una riduzione dell’attivazione dei contratti non standard e con un monitoraggio continuo e capillare di quelli in essere. Ci sarebbe da affrontare anche il caso delle cosiddette “dimissioni in bianco” ma qui apriremmo un argomento che da solo merita una riflessione molto approfondita».
I numeri bassi che si registrano in Calabria tra gli asili nido e le mense scolastiche quanto incidono sulla condizione femminile?
«Il peso del carico di cura resta centrale: In Italia, le donne che hanno interrotto la loro esperienza nel 2021 sono circa 38.000. Gli uomini che hanno lasciato il loro impiego, nei primi tre anni di vita del figlio o della figlia, sono stati 15.000, un dato record. Per le donne ad ostacolare la permanenza nel mondo del lavoro sono prima di tutte l’assenza di politiche aziendali per la conciliazione vita lavoro, i costi elevati di assistenza al neonato o alla neonata, l’assenza di parenti di supporto o il mancato accoglimento al nido. È chiaro che se a ciò ottemperasse il settore pubblico, il problema potrebbe essere ridimensionato. Ma ciò non accade. Questi dati hanno poco a che fare con scelte personali e molto con condizioni materiali, come quella banalmente del non avere avuto nessuno che si occupasse dei figli tra scuole chiuse per quasi due anni, quarantene e carenza di strutture per bambini piccoli (o a prezzi molto alti diventati ancora più proibitivi). Un discorso analogamente applicabile anche all’assistenza delle persone anziane e tutte quelle attività di cura non retribuite che, non ricevendo dovuta attenzione da parte dei governi, nazionale e regionale, hanno l’effetto di spingere le donne nella sfera domestica».
Cosa è possibile mettere in campo per facilitare in Calabria l’ingresso delle donne nel mondo del lavoro?
«Iniziamo da ciò che c’è: I bonus assunzione, uno degli incentivi più utilizzati, sono troppo deboli o addirittura inefficaci se non ci sono strumenti di supporto al lavoro di cura e se il lavoro di cura continua ad essere compito delle donne. L’esonero contributivo in caso di assunzioni di donne lavoratrici effettuate nel biennio 2021-2022, riconosciuto nella misura del 100% nel limite massimo di importo pari a 6.000 euro annui evidentemente non è sufficiente e guarda solamente all’impresa. Le politiche di formazione professionale devono essere quanto più capaci di conciliare il matching fra domanda e offerta di lavoro, il numero dei contratti “non standard” presenti in azienda deve essere fortemente limitato e controllato ( ribadisco, il part-time è la forma di ingresso al mercato del lavoro per una donna su due mentre ciò accade solo per il 26% degli uomini – Istat 2022) e l’utilizzo dello smart-working deve essere ampliato e reso possibile in più casi, rispetto a quelli che lo fanno attivare oggi, a parità di salario. L’implementazione del Fondo per le politiche della famiglia per attuare misure organizzative che favoriscano le madri che rientrano a lavoro dopo il parto va ancora a rilento e non ha una dotazione sufficiente ad affrontare in maniera radicale il problema. I servizi di conciliazione, parallelamente, devono essere più presenti ed efficaci. La questione della donna nell’ingresso nel mondo del lavoro risulta cruciale per molteplici aspetti, due dei quali, a mio parere, fondamentali. Il primo è quello relativo alla crescita demografica. Un Paese che nei fatti, non tutelando adeguatamente la maternità sul luogo del lavoro, è destinato ad invecchiare in maniera irreversibile, il secondo, relativo a salari e dipendenza economica (dati livelli notevolmente diversi fra uomo e donna) alimenta il fenomeno della violenza domestica e quello della “impossibilità” fattuale nel denunciarla per mere questioni economiche di sopravvivenza».
E la Regione può in tal senso prevedere una strategia utile?
«La Regione può fare molto. Da un lato può sicuramente incidere su quello che è il portafogli di strumenti utili alla conciliazione dei tempi di vita e di lavoro (asili, asili nido, mense etc). Allo stesso tempo, e nelle more che il sistema si potenzi, la Regione potrebbe provvedere dei voucher (come ha fatto in passato senza spiegare dettagliatamente perché ha interrotto questa politica) per “acquistare” nel mercato privato servizi di conciliazione riguardanti l’infanzia ma anche l’assistenza verso la terza età. Tutto ciò all’interno di un sistema rigorosamente controllato e che sia realmente destinato a donne lavoratrici o che abbiano intenzione di entrare nel mondo del lavoro. Andrebbe riattivato lo strumento delle Borse lavoro (alle imprese), includenti una serie di politiche attive da fruire in azienda o in aziende del settore per una formazione di primo ingresso o continua, e allo stesso tempo andrebbe riproposto lo strumento della “dote occupazionale”, in cui i percorsi formativi vengono scelti dalle potenziali lavoratrici che possono così rivolgersi alle aziende che necessitano determinate figure professionali. Tutto ciò al fine di favorire l’uguaglianza tra uomini e donne in tutti i settori, incluso l’accesso all’occupazione e alla progressione della carriera, la conciliazione della vita professionale con la vita privata e la promozione della parità di retribuzione per uno stesso lavoro o un lavoro di pari valore». (r.desanto@corrierecal.it)
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