COSENZA Dieci anni fa oggi al “San Vito” si perdevano bambini come niente. Sì, si chiamava ancora San Vito, senza Marulla, perché Gigi quel giorno era in campo a tirare calci di rigori, nove, gli ultimi gol che gli mancavano per raggiungere quota 100, che per noi nati e cresciuti nel suo mito, non significava affatto mandarlo in pensione anzitempo. Indossava sempre la maglia a due colori numero cento anziché nove, la pelata e i pantaloni lunghi, come a voler dire: va bene, per questa volta, solo per questa festa, divento personaggio, ma fino a un certo punto.
Quel giorno si perdevano bambini come fossero sogni di cent’anni di solitudine rossoblù, Carchidi, lo speaker di vent’anni prima, annunciava con ironia il loro smarrimento a ritmo di musica, quasi come quella formazione che è rimasta nell’immaginario collettivo di una provincia intera: Simoni, Marino, Lombardo, Castagnini, Schio, Giovannelli, Galeazzi, Bergamini…e gli anni ’80, gli agguati mafiosi, i misteri, i Nuclei Sconvolti e l’impegno sociale, le anime fragili e ribelli scomparse troppo presto, il ritorno in serie B dopo una vita, “Mai più prigionieri di un sogno“, Padre Fedele, Gianni Di Marzio, Bruno Giorgi, il palo di Lombardo, il gol di Gigi a Pescara, Catena, il palo di Adriano Fiore con la Sampdoria, il gol di Gigi a Padova, la filosofia di Giuliano Sonzogni, i fallimenti e le rinascite parziali, il gol di Tutino a Pescara, i pianti pieni e tutto un resto vissuto intensamente, come se nel mondo non esistesse altro che quello, il Cosenza, u Cusenza.
Era il 23 febbraio del 2014, Eugenio Guarascio faceva il giro del campo a petto in fuori senza prendersi un applauso. La musica tamarra precipitava come un bombardamento di vuoto sui sentimenti più romantici e indifesi, la curva esplodeva di passione naturale.
Il Cosenza vinse 2 a 1 contro l’Aversa Normanna, era allenato da un fricchettone con i jeans strappati, tal Roberto Cappellacci che, grazie anche alla riforma dei campionati, portò i Lupi nella nuova Lega Pro.
Oggi ci penso e da quel giorno mi sembra che Cosenza sia cambiata poco e niente. È rimasta imprigionata nel sogno, nel suo splendore decadente, nel suo specchiarsi volutamente di sfuggita per vedersi solo bella e unica, è rimasta intrappolata nel suo romanzo di provincia, un mattone lungo oltre mille pagine che non si riesce mai a terminare.
E quindi? E quindi niente di che. Alla fine di questo discorso un po’ pallonaro e un po’ no, mi viene da dire la solita cosa aulica ed esagerata, che Cosenza in fondo è il Cosenza calcio, qualsiasi cosa voglia dire. Forse, nel carattere, è soprattutto quello, anche se chi studia roba seria tutto questo lo respinge o non lo vede.
Non vede quel giorno del centenario, la B ritrovata e la A immaginata, non vede il “Città di Cosenza” del ventennio fascista diventato “Morrone” per tragedia, non vede il “San Vito” del boom economico anni ’60 diventato “Marulla” per mancanza. Non vede quelle facce sporche, inquiete ed entusiaste, alla ricerca di un riscatto meritato e immeritato. Non vede Gigi, i suoi nove tiri in porta, gli olè per ogni rete, la sua camminata cosentina, lenta, riservata, malinconica, le mani alzate verso un cielo azzurro di febbraio e poi l’addio inconsapevole nel suo futuro stadio. Quello di oggi, di stasera, più invecchiato, rattoppato in fretta e furia per una nuova festa di compleanno.
Quel giorno si perdevano bambini invisibili e in carne e ossa come niente, bambini di cent’anni che lasciavano le mani dei padri e delle madri per godersi lo spettacolo in libertà. E chissà poi che fine hanno fatto.
Centodieci, nonostante tutto, auguri Cosenza.
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