«Cesare Pavese soggiornò in Calabria per 8 mesi, dal 5 agosto 1935 al 15 marzo 1936, a causa di una disposizione del regime fascista – il famigerato confino di polizia – che lo riteneva un sovversivo. Destinazione Brancaleone, l’estrema propaggine dell’Italia, sul versante jonico reggino, dopo Capo Spartivento e prima del 38° parallelo. Il viaggio in treno dal Piemonte alla Calabria fu un calvario, così come fu una pena la sua forzata residenza. Lui che amava la nebbia delle Langhe si trovò improvvisamente a cuocere tra le pietre assolate della spiaggia omerica tra il frinire delle cicale, il lampeggiare delle lucciole, il profumo del gelsomino e del bergamotto e i colori forti di paesaggi cangianti che si rispecchiano nelle fiumare cinte tra l’agave e il fico d’india. Facendo violenza su sé stesso Pavese se ne fece, a un certo punto, una ragione aiutato dall’ospitalità del paese che lo trattò sempre con rispetto e ammirazione. «Qui la gente di questi paesi – scrisse alla sorella il 27 dicembre 1935 – è di un tatto e di una cortesia che ha solo una spiegazione: qui una volta la civiltà era greca. Persino le donne, che a vedermi disteso in un campo morto dicono “Este u’ confinatu” lo fanno con una tale cadenza ellenica che io mi immagino di essere Ibico…». Sono stati in tanti a scrivere e commentare il soggiorno coatto di Pavese sullo Ionio. Tra questi sicuramente Enzo Romeo di Siderno e Gianni Carteri di Bovalino. Romeo – vaticanista del Tg2 – gli dedicò il saggio, “La solitudine feconda”, (Editoriale progetto 2000 Cosenza, 1986) in questo contesto: «“U prufessuri”, pur nei limiti di una condizione penalizzante che lo vide inizialmente diffidente, ebbe un sottile e pudico dialogo con la gente e fece di tutto per secondarne le occasioni che si presentavano: le meditazioni in una spiaggia senza barche, la passeggiata lungo la via nazionale, il caffè al bar Roma, i colloqui col medico socialista Vincenzo De Angelis e col parroco Don Leotta, le lezioni a qualche studente come la signorina Iole, figlia del maresciallo dei carabinieri Mariano Raccioppo». Carteri, con il coautore Nazario Gaudenzio, licenziò il saggio “I gerani di Concia. Cesare Pavese e la Calabria: tra poesia e mito”, (Città Calabria, 2005). Concia era la «servetta scalza», «la cui figura – scrisse ancora Carteri – racchiude emblematicamente come un germoglio, proprio in grazia della sua inafferrabilità e ambiguità, l’idea stessa del femminile secondo Pavese […]». Da Brancaleone Pavese scrisse anche ad Augusto Monti: «Qui i paesani mi hanno accolto umanamente, spiegandomi che, del resto, si tratta di una loro tradizione e che fanno così con tutti. Il giorno lo passo “dando volta”, leggicchio, ristudio per la terza volta il greco, fumo la pipa, faccio venir notte; ogni volta indignandomi che, con tante invenzioni solenni, il genio italico non abbia ancora escogitato una droga che propini il letargo a volontà, nel mio caso per tre anni. Per tre anni! Studiare è una parola; non si può niente che valga in questa incertezza di vita, se non assaporare in tutte le sue qualità e quantità più luride la noia, il tedio, la seccaggine, la sgonfia, lo spleen e il mal di pancia. Esercito il più squallido dei passatempi. Acchiappo le mosche, traduco dal greco, mi astengo dal guardare il mare, giro i campi, fumo, tengo lo zibaldone, rileggo la corrispondenza dalla patria, serbo un’inutile castità». Cesare Pavese era amico intimo di un famoso calabrese, Raf Vallone di Tropea, due lauree, partigiano, redattore dell’Unità, ala destra del Torino in serie A, attore. Insieme mangiavano alla trattoria “Le tre galline” di Torino dove, tutt’ora, ci sono le foto-ricordo».
*Giornalista
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