VIBO VALENTIA Secondo i giudici «agiva quale rappresentante della famiglia Mancuso sulla piazza milanese», con particolare riguardo «agli affari nel campo degli idrocarburi, in seno ai quali s’occupava di allacciare i contatti con i broker del settore». Lo scrivono nero su bianco i giudici nelle motivazioni del processo “Petrolmafie” celebrato con rito ordinario, riferendosi ad Antonio Prenesti (cl. ’66) noto come “Mussu stortu” e “Toto yo-yo”, condannato a 15 anni di carcere rispetto ai 20 chiesti dall’accusa. I giudici, infatti, lo hanno ritenuto colpevole in relazione all’associazione a delinquere dedita alla commissione di una pluralità di illeciti connessi al contrabbando di idrocarburi nonché parte di un’associazione di stampo mafioso, attiva nel territorio vibonese e con ramificazioni nel settentrione, fortemente compenetrata con la famiglia Mancuso di Limbadi e particolarmente influente nel settore degli appalti e in quello degli idrocarburi. Antonio Prenesti, intanto, è coinvolto anche nell’inchiesta “Maestrale” e “Imponimento”, entrambe della Distrettuale antimafia di Catanzaro.
Il suo nome nell’inchiesta della Dda ritorna in più di un’occasione, soprattutto nel caso legato alla trattativa con la Rompetrol, l’ormai noto affare con il gruppo dei kazaki che – per altre ragioni – non si perfezionerà mai. Nel corso dell’attività investigativa, però, gli inquirenti intercettano numerose conversazioni, come ad esempio la partecipazione di Prenesti «quale rappresentante della famiglia Mancuso a Milano» con i due broker – poi assolti – proprio del gruppo kazako. I giudici nelle motivazioni riportano l’organizzazione dell’incontro risalente al 17 gennaio 2019 tra cui erano presenti Prenesti e Giuseppe D’Amico, quest’ultimo condannato a trent’anni. L’oggetto dell’incontro «risulta interamente incentrato sulla necessità di allargare la rete di distribuzione riconducibile al gruppo, nell’ottica di allocare più facilmente il prodotto che avrebbero approvvigionato dalla Rompetrol», riportano i giudici nella sentenza. È ancora Antonio Prenesti ad informare D’Amico che al pranzo del giorno successivo ci sarebbe stato anche Luigi Mancuso. Secondo i giudici, dunque, la ricostruzione della vicenda in esame «consente di delineare compiutamente la figura di Antonio Prenesti, apprezzabile quale uomo di fiducia di Luigi Mancuso», denotando un rapporto «confidenziale e privilegiato».
In merito alla figura di Toto “yo-yo” Prenesti, i giudici hanno ritenuto utili anche i contributi dei collaboratori di giustizia, con particolare riferimento a Bartolomeo Arena ed Emanuele Mancuso. Secondo Arena, infatti, Prenesti «era considerato un “azionista”, molto temuto in tutta la provincia, in quanto braccio destro di Luigi Mancuso». Dichiarazioni sovrapponibili al rampollo dei Mancuso secondo cui “Mussu stortu” era «referente della famiglia in Lombardia» attribuendogli «il ruolo di azionista, impiegato per la commissione di omicidi ovvero di atti intimidatori». E, in particolare, il collaboratore attribuiva ad Antonio Prenesti il tentato omicidio di Francesco “Ciccio Tabacco” Mancuso, episodio che aveva esposto la cosca al rischio di una faida interna tra zii e nipoti. «Yo-Yo! Era il braccio destro, braccio destro di Luigi Mancuso… Luigi Mancuso era il capo vertice. A destra, qua! No il fratello, il nipote, c’era questo qua e a sinistra c’era Luni Scarpuni», dice in una intercettazione Nicola Antonio Monteleone, alla sbarra nel processo “Imponimento”.
Il riferimento è all’episodio del 9 luglio 2003 quando fu ucciso Raffaele Fiamingo considerato il boss della zona del Poro, a Spilinga. Secondo l’accusa della Dda di Catanzaro, Michele Mancuso era il mandante mentre Antonio Prenesti e Mimmo Polito sarebbero gli esecutori materiali. Secondo la ricostruzione emersa nell’inchiesta “Errore fatale”, Fiamingo e Mancuso «avevano chiesto il pizzo al gestore di un panificio di Spilinga, ma tra i proprietari di quel negozio c’era anche il fratello di “Mussu stortu”, cioè Antonio Prenesti, ritenuto braccio destro del boss Cosmo “Michelina” Mancuso». Dopo la richiesta estorsiva, i gestori del panificio, sentendosi forti – secondo gli inquirenti – del sostegno di boss locali, avrebbero chiesto a Fiamingo e a “Tabacco” di tornare dopo un’ora. Nel frattempo, il gestore del panificio e il fratello di Prenesti si sarebbero recati da Cosmo Mancuso a Limbadi, assieme a Polito, per chiedere al boss il placet per l’agguato. E “Michelina” avrebbe dato l’ok a sparare contro il nipote. Così, una volta tornati al panificio, Fiamingo scese – mentre “Tabacco” restò in auto – ed entrò nel panificio, ma si ritrovò davanti due persone che gli spararono contro, lo inseguirono all’esterno e lo finirono in una via vicina». Tutti e tre, però, verranno assolti in Cassazione «per non aver commesso il fatto». (g.curcio@corrierecal.it)
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