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‘Ndrangheta, da Santa Cristina d’Aspromonte ad Anzio e Nettuno. Il pm: «Giacomo Madaffari è il capo indiscusso»

Lo ha detto Giovanni Musarò nel corso del processo “Tritone”. Dal sottogruppo «composto da Madaffari, Perronace e Gallace» al «buon ordine del territorio»

Pubblicato il: 07/10/2024 – 10:51
di Giorgio Curcio
‘Ndrangheta, da Santa Cristina d’Aspromonte ad Anzio e Nettuno. Il pm: «Giacomo Madaffari è il capo indiscusso»

VELLETRI Le differenze sostanziali tra ‘ndrangheta, cosa nostra e camorra, l’individuazione di una “catena di comando” e le infiltrazioni nel mondo politico. È il pm Giovanni Musarò a tracciare la linea nell’udienza davanti ai giudici del Tribunale di Velletri dove a tenere banco è il processo nato dall’operazione “Tritone” della Dda di Roma.  Il pm, nel corso di un lungo intervento, ha richiamato il ruolo importante dei pentiti, le cui affermazioni e ricostruzioni, sarebbero state puntualmente riscontrate nei fatti.
«Uno dei primi collaboratori che abbiamo sentito in questo processo, dopo Belnome, – ha detto Musarò – è un collaboratore che solo apparentemente non c’entra nulla. Mi riferisco a Paolo Iannò e non è un caso se lo abbiamo portato. Iannò è un collaboratore storico di Reggio Calabria anche per capire di chi stiamo parlando, è uno che prima di collaborare con la giustizia quando era latitante faceva parte della “Provincia”, cioè dell’organo collegiale di vertice della ‘ndrangheta, quindi, stiamo parlando di un collaboratore non di Serie A, di Champions League».

«La ‘ndrangheta è qui»

Come ha spiegato il pm in aula, dunque, Iannò «ha la capacità, e l’aveva già fatto in altri processi, di spiegare immediatamente qual è la peculiarità della ‘ndrangheta Ci dice la differenza tra la ‘ndrangheta, cosa nostra e la camorra ovvero che il camorrista, il mafioso va a Roma, fa un affare, va a Milano, fa una rapina, poi torna in Sicilia o se sta a Milano continua a fare affari illeciti a Milano». «Lo ‘ndranghetista no, Iannò utilizza l’espressione di “mettere le radici”, ha la capacità di dire la “‘ndrangheta è qui” e questo accade quando lo ‘ndranghetista si sposta dalla Calabria, e questo può avvenire per varie ragioni». «Iannò ci dice, per esempio, che una pecca dello Stato è stato il soggiorno obbligato che ha poi fatto sì che i vari ‘ndranghetisti mandati al Nord abbiano costituito dei locali di ‘ndrangheta di Lombardia e in Piemonte». «In questo processo, questa è una prima caratteristica importante che noi intendiamo sottolineare perché consente immediatamente di capire di cosa stiamo parlando, cioè qual è il motivo per il quale i Gallace, i Perronace, i Madaffari, Vincenzo Italiano, tutti nati in provincia di Reggio Calabria o di Catanzaro, li ritroviamo sul territorio di Anzio e Nettuno? C’è un motivo e incredibilmente è sempre lo stesso, il motivo è un motivo di sicurezza».

“Chiamarsi il posto”

Il pm Musarò ha poi messo l’accento sull’esistenza di un locale di ‘ndrangheta ben preciso e definito, ed è quello di «Santa Cristina d’Aspromonte». «So – ha detto il pm – che il Riesame dirà che non è mai stata accertata l’esistenza di un locale di ‘ndrangheta a e questo è un tema che è stato proposto sia in fase cautelare sia nel giudizio abbreviato, ma che non ha attecchito. E perché? Perché l’esistenza di un locale di ‘ndrangheta nel paese di Santa Cristina d’Aspromonte emerge in modo inequivocabile dalle intercettazioni di questo processo».  Secondo il pm quindi «è lo stesso locale, ma è un distaccamento di Santa Cristina. Di questo locale però fanno parte anche una serie di soggetti appartenenti a famiglie di Guardavalle, cioè Gallace, Perronace e Tedesco, più altri personaggi tutti di origine calabrese». «Belnome lo spiega bene, si chiama “chiamarsi il posto”, cioè quando c’è un ‘ndranghetista che si trasferisce fuori dalla Calabria, arriva su un territorio fuori dalla Calabria, lui è un ‘ndranghetista, lì c’è un locale di ‘ndrangheta, è un ‘ndranghetista vero, si chiama il posto ed è una procedura che Belnome ha spiegato bene».

Il boss Giacomo Madaffari e la “triade”

«Poi c’è un’altra peculiarità che noi abbiamo accertato in questo processo, la carica di capo locale spetta a Giacomo Madaffari, lo ha spiegato bene Belnome, ed è ovvio che la carica spetti a lui perché Madaffari è di Santa Cristina, è il personaggio più carismatico di Santa Cristina, stanziato sul litorale laziale, quindi la carica spetta a lui perché parliamo di una carica “monocratica”». Nella sostanza secondo la ricostruzione in aula de pm, «questo locale di ‘ndrangheta, questa associazione mafiosa, si compone di tre sottogruppi che potremmo chiamare Madaffari, Perronace e Gallace, al cui vertice si pongono rispettivamente Giacomo Madaffari, Davide Perronace e Bruno Gallace».  Questi tre sottogruppi sono legati fra loro, e «costituiscono un unico gruppo che si chiama locale di ‘ndrangheta di Anzio e Nettuno il cui capo indiscusso è Giacomo Madaffari».
Si tratta di «un’associazione mafiosa la cui esistenza è ben nota sia ai cittadini di Anzio e Nettuno sia ai politici di Anzio e Nettuno, sia le forze dell’ordine e le consorterie criminali, anche blasonatissime come i Bellocco, che hanno l’idea di spostarsi e fare affari su Anzio e Nettuno. Tutti sanno che lì c’è un’associazione mafiosa che non è dedita solo al traffico di sostanze stupefacenti che comunque resta un’attività fondamentale. È evidente per noi il controllo del territorio che ha questa associazione, è evidente che garantisce quello che Capuano, il collaboratore, ha chiamato il “buon ordine del territorio”, però ci sono due aspetti che connotano e che caratterizzano in particolare questa associazione mafiosa e sono le infiltrazioni nelle pubbliche amministrazioni di Anzio e Nettuno e in apparati istituzionali-investigativi». (g.curcio@corrierecal.it)

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