COSENZA È come per la città unica: d’accordo sul concetto, ma sul metodo parliamone. Se c’è qualcosa che la fusione dei comuni dell’area urbana l’ha già realizzata – da anni, e non solo a Cosenza, Rende e Castrolibero – è il cuddrurìaddru: cibo identitario per eccellenza ma insieme rispettoso delle diversità, lessicali (di grafia e dizione) ma anche di ricette. Must del Natale ma in generale del mese di dicembre nella città allargatissima e consacrata alla padella, è presente dal Pollino allo Stretto, dove diventa crispedda, e riverbera nei vari territori la doppia dicotomia tra dolce/salato e forma circolare/forma allungata, con varianti negli ingredienti e nei ripieni degni di un ricorso al Tar e poi al Consiglio di stato.
Sono i giorni in cui il cosentino si sveglia e sa che dovrà trovare, o prenotare, uno o più cuddruriaddri nelle decine e decine di friggitorie, forni o gastronomie allestite alla bisogna. Nei banchi cittadini si ordinano senza nemmeno doverli citare: «Ve ne sono rimasti?» mentre sui social viene rilanciato il brano bossanova del cosentino a New York Enrico Granafei, quasi 30mila visualizzazioni a oggi. «Oi mamma cum’è biaddru, fammìnni mu munsìaddru» (non c’è bisogno di concludere la rima), ovvero “com’è bello, preparamene una montagna!”.
Il linguista e glottologo Gerhard Rohlfs fece risalire la parola cuddrurìaddru al greco kollùra (ciambella) in riferimento a diversi cibi a forma circolare, dal pane ai biscotti ai fichi alle focacce. Una bibliografia minima non può non includere “La cucina calabrese in 300 ricette tradizionali” di Ottavio Cavalcanti (Newton&Compton, 2003) e “Calabria in cucina” di Valentina Oliveri (Sime Books, 2014), mentre in una pubblicazione del Corriere della Sera (2006) alla voce Crispeddi si legge: «Due le versioni di questa preparazione: una salata, fatta con pasta da pane lavorata con strutto fino a ottenere panini allungati, farciti con acciuga dissalata e origano, quindi fritti; e una dolce, preparata con ricotta zuccherata e, una volta fritta, servita cosparsa di zucchero».
Nelle agende delle matrone bruzie è conservata la ricetta, che però, come detto, non è mai unica, nei dosaggi e negli ingredienti, a partire dall’olio (girasole, arachidi, misti…) passando per le patate (della Sila o di Parenti?): la cucina povera domestica negli ultimi tempi è stata superata dalla smania dello street food, ma in giornate come questa – complice anche il maltempo – si ricorre volentieri alla preparazione in famiglia.
Eppure a Cosenza, dove il fritto consumato fuori casa è sacro non solo nel periodo natalizio, il “tempio laico” originario è Sasà, friggitoria ancestrale all’imbocco di corso Telesio: pochi metri prima, su via Sertorio Quattromani, aveva sede una rosticceria di cui parlò con nostalgia degna delle madeleine proustiane Stefano Rodotà in un’intervista a Repubblica.
Quella tradizione quasi secolare oggi viene tenuta in vita da alcuni chioschi in legno sparsi nelle piazze cittadine dove si officia il rito del punto di fumo lungo tutto l’anno, ogni giorno di ogni mese; altrove solo il venerdì. Che sia panzerotto o cuddrurìaddru, il fritto è presente nel menu dei cosentini anche nella versione – in crescita esponenziale – vecchiareddra, forma allungata e farcia anch’essa variabile: alici, ‘nduja o “pesciolini piccanti” (un tempo neonata), meglio ancora Sardella di Crucoli. Il nome richiama probabilmente la sagoma di una donna e al contempo ne celebra con orgoglio la titolarità dei fornelli in sistemi familiari a guida femminile, alla faccia del patriarcato insomma.
Francesco Paciola è un ironico e brillante grafico cosentino, che nel suo quartiere del centro storico (Portapiana) ha realizzato interessanti interventi di street art rivisitando espressioni dialettali bruzie con il brand Manocchio. In questo 2024, con l’Olio su tela che richiama la banana di Cattelan, ha aggiornato il suo filone cuddruriaddru che negli anni passati ha spopolato con la t-shirt in cui un figlio si autodenuncia per inadeguatezza nell’eseguire la ricetta della mamma, o il santino sul cui retro si narra la storia di Santu Cuddruriaddru, nato ai piedi del castello normanno svevo «al freddo e al gelo di una cucina povera, riscaldato solo da lievito madre e dalla patata della Sila» e «battezzato secondo il rito canonico delle Sacre Frissurae: sancto oleo calido plena». S. Cuddruriaddru viene celebrato nei giorni dell’Immacolata, delle vigilie di Natale e Capodanno (24 e 31 dicembre, a pranzo) e «nasce per sfamare i più poveri d’animo culinario, appagandone in modo immediato il chiurito del “cumu ci stassa mo’”» ovvero la voglia improvvisa di chi dice “adesso sarebbe davvero il momento giusto”.
Franco Roppo, infermiere con la passione della cucina di tradizione, nell’estate 2023 ha vinto un contest a tema organizzato a Nocera Terinese (altra zona di cuddruriaddri nelle varie versioni e diciture) e racconta che «storicamente, per celebrare al meglio questa pietanza, si narra che in alcuni paesini spettava al padrone di casa sparare tre colpi di fucile in aria per annunciare questo momento di convivio e di festa, mentre per chi viveva una condizione di lutto o si trovava ad assistere un malato in casa spettava a parenti e amici portare un cestino di cullurielli (essendo di Cleto, preferisce questa dizione, ndr). Mentre si friggeva non si doveva bere acqua altrimenti l’olio in padella di riflesso sarebbe diminuito drasticamente. Una volta completata la frittura – aggiunge – si mettevano nell’olio bucce di mandarino per non farlo consumare e al contempo per dargli tanto profumo tenendolo pronto a friggere ancora».
Anche le patate e la farina hanno un ruolo importante per la preparazione di un fritto che si rispetti. «Le patate – spiega Roppo – devono essere a pasta gialla in quanto contengono meno amido rispetto a quelle a pasta bianca, di conseguenza hanno una consistenza decisamente più compatta e una volta cotte risultano essere meno acquose e più facili da lavorare. Per quanto riguarda la farina si preferisce usare quella di grano duro perché anch’essa risulta essere più facile da lavorare: oltre a evitare che l’impasto rimanga appiccicoso, aggiunge fragranza e al contempo conferisce al prodotto una particolare doratura». Un’ultima avvertenza: «Mi raccomando, usate olio extravergine d’oliva…», ma non è il caso di forzare o imporre nulla, referendum di domenica scorsa docet. (e.furia@corrierecal.it)
Foto di Franco Roppo
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