LAMEZIA TERME «Prima dell’operazione “Cerbero”, quindi nell’estate 2019, ci siamo incontrati più volte a San Paolo con i gruppi del PCC, con esponenti delle varie famiglie che chiedevano di lavorare con loro. Ero io che mantenevo i contatti con il PCC». È il narcobroker Vincenzo Pasquino, torinese classe ’90, legato a doppio filo con la ‘ndrangheta calabrese, a parlare alle autorità giudiziarie brasiliane prima dell’estradizione in Italia e l’inizio della collaborazione con la giustizia. Dichiarazioni allegate agli atti dell’inchiesta “Samba” della Distrettuale antimafia di Torino.
«I rapporti tra il mio gruppo e i Nirta di San Luca – ha raccontato ancora Pasquino – iniziarono nel 2017 perché avevano bisogno di una “salita” dai porti del Brasile», perché loro fino a quel momento «avevano importato solo da Buenos Aires (dove avevano i ristoranti, tra cui uno detto “San Luca” credo vicino al casinò ed uno, di cui non ricordo il nome, vicino al Municipio)», ha raccontato ancora Pasquino. Dopo la rottura tra noi e i platioti, «Michelangelo Versaci e Patrik Assisi ci chiesero di trovare persone serie con cui lavorare. È in questo momento, come ho già spiegato, che iniziarono i rapporti con il gruppo di Nirta», ha spietato il broker. Come già detto, «nel 2018 venne in Brasile Sebastiano Giampaolo (padre di Antonio), in accordo, con Ivano Piperissa detto “testa” e Giuseppe Vitale detto, “il tirchio”, per verificare la situazione a seguito del sequestro di alcuni carichi di cocaina».
E, come raccontato ancora da Vincenzo Pasquino, «è in questo momento che si organizza a San Paolo una riunione per stringere un accordo con il PCC». All’esito della riunione sarebbe stato quindi stabilito di iniziare una collaborazione alla pari tra il PCC e il gruppo di San Luca, «per cui ognuno finanziava al 50% la partita di cocaina da importare in Italia», ha spiegato Pasquino il cui compito «era quello di garantire il passaggio dei soldi». Quindi «il 50% della cocaina del PCC che arrivava a Gioia Tauro veniva venduta dal gruppo di San Luca, per lo più al nord Italia e in Sicilia, e da noi di Torino. Il PCC vendeva a noi la cocaina a 5.000/5.500 euro al kg, che divenivano 7.500/7.000 euro al kg con il prezzo della “salita”». Come spiegato da Pasquino, dunque, la parte del PCC da vendere in Italia «aveva il prezzo pattuito minimo compreso tra 23.000 e 25.000 euro».
Dopo la riunione di San Paolo si era creata, dunque, un’unica organizzazione composta dal gruppo di Torino, quello di Guardavalle e il gruppo di San Luca. «Tutti insieme ci occupavamo del recupero della droga dal porto di Gioia Tauro e della successiva vendita», ha raccontato il broker Pasquino, «noi di Torino eravamo più propensi a vendere la cocaina in blocco direttamente al porto, così da scongiurare il rischio di sequestro» mentre il gruppo di San Luca e in particolare Stefano Nirta «non accettava di vendere la droga all’arrivo, avendo interesse a riceverla e venderla personalmente anche al Nord Italia, dove avevano un’articolazione». Perché, come spiegato dal narcobroker, il gruppo di San Luca «intendeva manifestare all’esterno la loro presenza e la riconducibilità a loro della cocaina che si vendeva». (g.curcio@corrierecal.it)
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