COSENZA «Questa proposta normativa, espressa in modo molto sbrigativo ed a tratti semplicistico, non tiene conto della strutturalità del fenomeno e manca di ragionare sulla effettiva applicabilità della fattispecie nonché sulla sua utilità intesa proprio come efficacia della norma stessa. Sembra più un compitino propagandistico da portare a casa l’8 marzo. C’è da dire, però, che finalmente leggo che siamo tutti d’accordo su un fatto: non ogni uccisione di una donna è da ritenersi femminicidio. L’uomo uccide la donna con la quale ha una relazione affettiva per molte motivazioni: gelosia, soldi, vendetta, desiderio di liberarsene per dedicarsi ad altre relazioni, ragioni da ricercare in cause psicopatologiche ed anche per motivi legati alla differenza di genere. Il femminicidio è proprio questo: l’eliminazione di una donna in quanto donna, come atto finale rispetto ad una serie di azioni volte ad annientarla fisicamente e psicologicamente, per odio verso un soggetto che si considera inferiore e non ritenuto al pari dei consociati maschi. È per definizione, dunque, una categoria criminologica e sociologica introdotta proprio per potenziare l’efficacia delle risposte in quelle realtà in cui l’autodeterminazione della donna ed il fatto di aver trasgredito al ruolo ideale impostole dalla tradizione, nonché il volersi sottrarre al potere ed al controllo del proprio padre o compagno, era ed è punita con la morte. È qui, dunque, che il reato di femminicidio, a mio avviso, così come espresso nella proposta, incontra il primo ostacolo normativo. Perché statuire che uccidere “come atto di discriminazione o di odio verso la persona offesa in quanto donna o per reprimere l’esercizio dei suoi diritti o delle sue libertà, o, comunque, l’espressione della sua personalità” non descrive una modalità dell’azione, ma un elemento che si riconduce alla genesi psichica della volontà del soggetto. Stabilire, quindi, se una azione omicidiaria è compiuta con questo tipo di rappresentazione volitiva, è possibile solo indagando sulla motivazione intra psichica sottesa all’agito, sulla criminogenesi, sugli aspetti che attengono la personalità del presunto autore e sul suo profilo criminale, non inteso certamente come casellario giudiziale, bensì come carattere e qualità psichiche, unitamente ad una valutazione del contesto socio culturale di riferimento. Questo vorrebbe dire, pertanto, procedere ad una perizia criminologica sull’indagato prima della formulazione dell’incolpazione e sull’imputato poi, cosa che è vietata dal nostro codice di procedura penale all’articolo 220. La ratio di tale divieto è quella di evitare forme di incidenza sul convincimento del giudice in senso sfavorevole all’imputato, in potenziale contrasto con il principio della presunzione di innocenza. Non è, del resto, possibile un’altra via per sostenere che un soggetto abbia ucciso quella donna perché nella sua convinzione ella meritava di morire in quanto donna. Introdurre un reato così espresso, significa infatti, autorizzare un pubblico ministero a formulare una imputazione attraverso una indagine sulla personalità del presunto autore di reato, sulla base della genesi dell’azione, da cui si traggono i tratti e le caratteristiche peculiari della sua personalità. Deriva abbastanza pericolosa.
Altro contrasto si presenterebbe anche in relazione gli artt. 24 e 3 della Costituzione. Una norma improntata in un’ottica di genere, anziché in una neutra come tutte le altre norme, priverebbe l’imputato dei diritti inviolabili di difesa e di uguaglianza, non potendosi egli difendere in base alla dimostrazione di dati di fatto a sé favorevoli, perché apriori già svantaggiato con riferimento alla tipologia di vittima ed al tipo di imputato, sulla base di valutazioni psicologiche svolte sulle sue presunte intenzioni. Senza contare che, considerando solo le donne, la norma non si preoccupa di tutta la comunità transgender, cisgender e non binaria che subisce atti di violenza legati all’odio di genere in misura anche maggiore. Cosa succederebbe poi se all’esito del procedimento si ritenesse che la matrice psichica non sia quella indicata dalla norma come elemento costitutivo? Si “derubricherà” l’imputazione in omicidio? Questo lascia intendere che l’ideazione di uccidere per altre ragioni una donna è meno grave, ma anche che la volontà di uccidere una donna è più grave di quella di eliminare un uomo o un transgender. Posto infine che un soggetto femminicida agisce ed agirà comunque, anche in presenza di un titolo di reato specifico, proprio perché l’agito si aziona nell’idea di una pre-disposta supremazia sulla consociata donna, sarebbe più funzionale dedicarsi maggiormente ad efficaci strategie di prevenzione e formazione nelle scuole, nonché incrementando il fondo per le vittime di crimini violenti ed il reddito di libertà. La maggiore attenzione e sensibilizzazione, infatti, sembra cominciare a produrre i primi effetti, almeno stando ai dati dell’ultimo rapporto della criminalpol, che registra una leggera diminuzione del fenomeno. Il femminicidio è ben più grave di una emergenza: è un fenomeno strutturale che va al di là di quanto compete al processo ed al codice penale. Riguarda, infatti, tutte le forme di discriminazione e violenza di genere che sono in grado di annullare la donna nella propria identità e libertà non soltanto fisicamente, ma anche nella dimensione psicologica, nella socialità, nella partecipazione alla vita pubblica e nella difficoltà di uscire da quelle situazioni che non consentono alla donna di ricostruirsi una vita e riappropriarsi di sé. Aspetti da scardinare da un punto di vista culturale e non certo con l’introduzione di nuovi reati. Tutt’al più, eventualmente attraverso la modifica del reato di omicidio, sostituendo “uomo” ad essere umano, o attraverso l’introduzione di specifiche circostanze aggravanti legate all’omicidio inteso come eliminazione di un essere umano per odio di genere. Ma mi rendo conto che un ragionamento del genere è meno propagandistico». E’ la nota a firma dell’avvocato e criminologa Chiara Penna.
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