La Calabria che incuriosisce i giornalisti è quasi sempre quella delle storie “esotiche”, curiose. E tralascio le questioni di cronaca. La Calabria è quella regione che, se ci vai, qualcosa da raccontare la trovi, la Calabria delle meraviglie, già, il titolo buono che ogni caporedattore cerca da un inviato. La regione spesso ci mette del suo, ma a mia memoria, in tre lustri di stanzialità in redazione a Cosenza, ho quasi sempre visto arrivare colleghi a caccia del colpo grosso. Uno solo lo ricordo delicato con lo sguardo e le domande, David Sassoli. Ma veniamo all’oggi. Mi hanno colpito due storie pubblicate a distanza di pochi giorni, una su Repubblica e l’altra sul Corriere, scritte da due prime firme, Concita De Gregorio e Gian Antonio Stella, tutte e due infilate in un ragionamento più generale, dovevi arrivare in fondo all’articolo per “trovare” la Calabria.
Sono storie vere, molto dolorosa quella raccontata da Concita. Sala d’attesa di un ospedale, si intuisce un reparto oncologico. La giornalista racconta l’attesa e i pianti, ognuno ha il suo, tutti sanno perché. E chiedo scusa innanzitutto all’autrice per la sintesi delle mie parole. A un certo punto si sente una donna che singhiozza disperata. Parlava una lingua sconosciuta, scrive la giornalista, “in qualche sillaba in qualche istante sembrava una lingua comune”, ma nessuno la capiva. Quella lingua sconosciuta era calabrese (ma il dialetto veneto si capisce?), un’infermiera ha chiamato il professore, il medico è uscito, ha preso le mani della donna, parlavano la stessa lingua. Erano dello stesso paese, si sono capiti, la donna si è tranquillizzata. Fin qui il racconto. Poi l’immaginazione. Il ragazzino bravo che lascia il paese per andare a studiare a Roma, poi va in America, poi torna, diventa un luminare, incontra una paziente del suo paesino e la porta via, con una mano sulla spalla, come se fosse la madre. Ma perché la Calabria evoca storie da libro cuore? Il medico non poteva essere di famiglia benestante? Non poteva essere di una città, o le città mancano in Calabria? Cerchiamo l’archetipo e lo cerchiamo in Calabria, cerchiamo umanità e pensiamo che abiti qui, vorremmo filia e ci piace pensare che ci sia un luogo che non l’ha smarrita. La realtà è diversa, a volte più deludente, a volte più entusiasmante. Continuando a descrivere la Calabria con categorie estreme, o ‘ndrangheta o il gran cuore dei calabresi, rischiamo di opacizzare il quotidiano. Tra i buoni e i cattivi, tra il bene e il male, tra l’antico e il moderno, c’è un banale presente, poco paradossale e molto ordinario. Che va capito.
Veniamo all’altra storia, stavolta divertente, raccontata dallo stesso Gian Antonio Stella nel 2007, forse dimenticata. Il giornalista la infila nel finale della sua rubrica in cui parla di nomine Rai e lottizzazione. Un Paese senza vergogna, è il senso del ragionamento. Del resto, scrive, è il Paese dove “pochi anni fa accadde perfino che a scelta del santo patrono della provincia di Vibo Valentia vide contrapposti dopo una spaccatura della Margherita, di qua San Bruno in quota fedeli a Rutelli, e di là San Francesco in quota Loiero. Epilogo indimenticabile: uno fu scelto come protettore, l’altro come patrono. Lottizzati pure loro”. Una storia gustosa assai, se fate una ricerca potete godervi quello che successe all’epoca con tanto di atti pubblici e che evidentemente merita di essere ripescato come esempio perpetuo del doroteismo italiano. Oggi Stella tralascia il carattere “fumantino, non raro tra i calabresi” che nella cronaca dell’epoca invece rimarcava. È come dire che i napoletani sono tutti simpatici. Non è così. Mi viene in mente la coppola che da un po’ di tempo usa un componente della mia famiglia. È calabrese, ma la lupara no, in casa non c’è. (redazione@corrierecal.it)
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