MILANO Le prove dichiarative utilizzate ed utilizzabili, le uniche di cui, a distanza di decenni si è potuto disporre, sono note da decenni. E da altrettanti decenni è nota la posizione di Salvatore Pace, attraverso le dichiarazioni confessorie dei collaboratori di giustizia. Una base di partenza per i giudici della Corte d’Assise d’appello di Milano che hanno assolto il collaboratore di giustizia, ribaltando la sentenza di primo grado che lo vedeva condannato a 7 anni. Il processo è quello legato all’agguato mortale costato la vita ad Umberto Mormile, l’educatore del carcere di Opera ucciso dalla ‘ndrangheta, nel Milanese, l’11 aprile del 1990. Si tratta solo di un nuovo capitolo nell’ambito di una storia processuale ultradecennale, una battaglia legale, di giustizia e di ricerca della verità proseguita per anni, senza lasciare alcuna pista investigativa inesplorata, grazie all’apporto dell’avvocato di parte civile, ovvero la famiglia Mormile, Fabio Repici del Foro di Messina.
Sullo sfondo restano le ombre sulla presunta responsabilità dei Servizi “deviati”. Secondo i giudici della Corte d’Assise d’Appello «non si sono potuti identificare» mentre per la difesa si tratta di uno degli aspetti chiave dell’intera vicenda. Dopo 35 anni, però, la pista si fa sempre più tratteggiata e indefinita all’orizzonte. Anche perché, a monte, i processi celebrati per giungere alla condanna dei mandanti e degli esecutori materiali avevano «lasciato molto a desiderare in ordine alla ricostruzione del delitto…». Ne è convinto proprio l’avvocato Repici. Nelle oltre 70 pagine di motivazioni, infatti, i giudici ripercorrono la fase dibattimentale e sottolineano la linea difensiva che il 1° agosto del 2018 aveva presentato una denuncia-querela. Obiettivo? Dissipare «ogni ombra lesiva della reputazione del defunto» e l’individuazione dei «mandanti “occulti” della sua violenta morte, da ricercarsi in “uomini dei Servizi” nonché altri membri del “Consorzio”» ovvero quella prima parvenza di “holding mafiosa” che, confederando ‘ndrangheta, camorra e mafia siciliana aveva, in quegli anni, colonizzato il territorio lombardo, anticipando di molti anni quello che, a fatica, sta emergendo dalla maxinchiesta “Hydra” della Dda di Milano. (QUI L’ARTICOLO)
Secondo la difesa, dunque, la prova dell’effettivo movente andava cercata «nella voce processuale di uno degli esecutori materiali», Antonino Cuzzola, il quale aveva rivelato, dopo averlo appreso dal mandante Antonio Papalia, che quest’ultimo «aveva voluto la soppressione fisica di Umberto Mormile per conto del fratello Domenico». La vittima, infatti, sarebbe stata «testimone degli incontri “abusivi” di Domenico Papalia con esponenti dei Servizi segreti nel carcere di Parma dov’era detenuto». Come riportano i giudici della Corte d’Assise, effettivamente Mormile aveva prestato servizio nel carcere di Parma dal 1° gennaio 1979 fino all’ottobre 1987. E, in quello stesso periodo, l’Istituto era stato oggetto di una ispezione da parte del Dipartimento degli Istituti Penitenziari – per ripetute segnalazioni del Magistrato di Sorveglianza – che denunciavano lassismo, violazioni dei regolamenti, mala gestio e ingovernabilità – conclusasi con la rimozione del Direttore pro tempore e il trasferimento di parte del personale, tra cui proprio Mormile.
Come ricostruito in fase processuale, però, nonostante il trasferimento dal carcere di Parma a quello di Milano-Opera, il «pericolo di vita» di Mormile «non si sarebbe né attenuato né azzerato», secondo la narrazione di “Nino” Cuzzola, perché «i Papalia non avrebbero mai potuto dimenticare che costui si era “imprudentemente” e “pericolosamente” lasciato sfuggire l’episodio visto a Parma con un altro detenuto». Ma non solo. Secondo la difesa, infatti, i giudici che effettivamente condannarono Papalia «anziché accedere, in relazione alla causale, alla versione offerta da Cuzzola, ritennero ambiguamente valida pure un’ipotesi alternativa». Il riferimento, in questo caso, è alle dichiarazioni di Schettini e Di Giovane secondo cui «Mormile era stato in tempi passati corrotto, a Parma, da Domenico Papalia ma, una volta ad Opera, pur avendo accettato del denaro, aveva rifiutato di agevolare abusivamente lo stesso Papalia», e per questo motivo «doveva essere punito». L’avvocato Repici, infine, lamentava anche la “declassificazione” della rivendicazione a firma della «Falange Armata» quale opera di mitomani o ciarlatani, ritenendola «autentica, non millantata da “depistatori”» se è vero che si trattava di una sigla dietro la quale si celano “pezzi deviati” di apparati dello Stato.
Una pista percorsa da tanti protagonisti dell’intera vicenda, ripresa più volte nelle lunghe fasi processuali. Ci sono, ad esempio, le dichiarazioni “contrastanti” di Vittorio Foschini, condannato in via definitiva a 7 anni dopo aver rinunciato all’appello. «(…) perché la fonte dei Servizi Segreti sono solo i Papalia, nessun altro. Certo, Franco Coco lo sapeva, ma era al corrente tramite Domenico, ma chi aveva i rapporti con i Servizi Segreti erano i Papalia. Allora si diceva pure che Antonio Papalia avrebbe detto che i Servizi erano andati a trovare a Domenico Papalia, questi non lo so come hanno fatto, non lo so…». Come ricostruito, queste erano confidenze a cui Antonio Papalia si sarebbe lasciato andare fra commensali, parlando dell’omicidio del boss Totò D’Agostino, avvenuto a Roma il 2 novembre del 1976. «I Servizi segreti o, meglio, “i due dei Servizi Segreti” visto che così si esprimevano i Papalia, avrebbero promesso a Domenico Papalia che lo avrebbero fatto stare bene in galera, che non andava nelle carceri dove stava male (…) e poi lo aiutavano a farlo uscire, gli facevano dare pure i permessi…» «l’educatore, non so come ha fatto e come non ha fatto, ha scoperto che lui era appoggiato dai Servizi Segreti o perché magari ha visto che sono entrati, non lo so… E anche per questo è stato ammazzato… Mormile aveva scoperto pure perché sono andati a fargli i colloqui i “due dei Servizi Segreti” a Domenico Papalia, questo è vero perché lo diceva anche Antonio Papalia… come hanno fatto ad entrare, questo non lo so…». E ancora, raccontava Foschini: «Lui (Antonio Papalia ndr) ha detto “i Servizi Segreti hanno detto di uccidere Mormile e che mio fratello non esce più per i permessi perché lui ha capito tutto” dice “perché sa che noi abbiamo i contatti con i Servizi Segreti e poi sapeva anche che lui ancora aveva i contatti con la ‘ndrangheta, questo che diceva Mormile…».
A febbraio 2024, però, lo stesso Foschini, nell’ambito del presente processo penale, pur ribadendo d’aver provveduto a consegnare «…delle moto…» ai Papalia, teneva a precisare che all’atto del suo «mettersi a disposizione», la finalità dei mezzi non gli era nota, avendo appreso i dettagli relativi all’uso nell’omicidio di Mormile da Antonio Schettini e «solo dopo essere stato “battezzato”» tra giugno e settembre 1990, «in ogni caso ad omicidio già consumato», annotano i giudici nelle motivazioni. «Dell’omicidio Mormile l’ho saputo dopo, ecco perché ho sbagliato un po’ di dichiarazioni (…) ho fatto parte della ‘ndrangheta e là si parlava dell’omicidio Mormile perché doveva essere fatto per i Papalia, i Servizi Segreti, queste cose qua le ho sapute dopo…». (g.curcio@corrierecal.it)
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