CATANZARO Nella solenne cornice della Basilica della Immacolata” di Catanzaro, l’arcivescovo metropolita monsignor Claudio Maniago ha presieduto la Messa in Coena Domini, dando avvio al Triduo Pasquale con una liturgia intensa e partecipata da una grande moltitudine di fedeli. Una celebrazione che ha messo al centro l’amore di Cristo e il suo dono totale per l’umanità, rievocando l’istituzione dell’Eucaristia e del sacerdozio, e sottolineando la forza disarmante del servizio, espressa nel gesto della lavanda dei piedi. Nell’omelia, l’Arcivescovo ha invitato i presenti a non vivere la Settimana Santa come spettatori, ma come partecipi attivi del mistero pasquale: «Non siamo noi a dover cercare Dio, è Lui che ci viene incontro», ha detto, richiamando la profonda verità dell’amore di Cristo che «ci ha amati fino alla fine”, fino a donare tutto sé stesso nel pane e nel vino dell’Eucaristia. Monsignor Maniago ha spiegato come Gesù, durante l’Ultima Cena, abbia trasformato il rito pasquale ebraico, memoriale della liberazione dalla schiavitù d’Egitto, in un nuovo segno di libertà: dalla schiavitù del peccato alla libertà dell’amore. L’istituzione dell’Eucaristia, ha sottolineato l’Arcivescovo, è il cuore della nostra fede, dove Cristo si dona ogni volta per rigenerare la nostra vita e restituirle la sua dignità. Il momento della lavanda dei piedi, ripetuto nella celebrazione, ha rappresentato visibilmente il messaggio centrale dell’omelia: l’amore si esprime nel servizio, nella capacità di chinarsi sugli altri per restituire dignità, per curare le ferite, per togliere la “polvere e il fango” che la vita spesso lascia sul nostro cammino. «Gesù si china su di noi – ha detto l’Arcivescovo – per dirci quanto siamo preziosi, perché la nostra dignità è unica, irripetibile, voluta da Dio stesso».
«Il nucleo della nostra fede è questo: noi crediamo in Gesù Cristo morto e risorto per i nostri peccati. E questa è una consegna che Paolo ha ricevuto dai primi seguaci di Gesù e che ha fatto propria, cioè è diventata parte della sua vita e lo dirà più volte: “tutto quello che era prima di me, l’ho considerato spazzatura di fronte alla novità dell’annuncio di Gesù Cristo morto e risorto”»: Così il vescovo di Lamezia Terme, monsignor Serafino Parisi, nel commentare la prima lettera di San Paolo Apostolo ai Corinzi durante l’omelia della Santa Messa in Coena Domini, da lui presieduta in Cattedrale. “Questa sera – ha proseguito il Vescovo – Paolo dice che il Signore gli ha consegnato il racconto dell’ultima cena di Gesù con i suoi discepoli, con una formulazione che è una formulazione stereotipata rigida” e “queste parole sono indicative, anche loro, di una consegna che pure a noi viene fatta e che noi dobbiamo fare agli altri. Cioè, noi riceviamo il mistero della presenza vera, viva, operativa, attiva del Signore dentro la vita della Chiesa e di ognuno di noi. È il mistero eucaristico che, come abbiamo ascoltato, “ogni volta che mangiate di questo pane e bevete di questo calice, voi annunciate la morte del Signore finchè egli venga”».
Anche l’arcivescovo di Cosenza Bisignano, monsignor Giovanni Checchinato, ha inviato ai fedeli un messaggio per la Pasqua: «Celebrare Pasqua nell’anno giubilare dedicato alla speranza è un dono davvero incomparabile. Talora confondiamo la speranza con l’ottimismo, ma l’ottimismo è un atteggiamento preconcetto, una sorta di partito preso sul mondo, o – come dice qualcuno – un velo sul mondo (A. Candiard). La speranza cristiana è invece realistica perché chiama le cose con il loro nome, anche se si muove nell’incertezza, e ci ricorda che il mondo non ci appartiene, anche se ci è stato donato. La mancata speranza fa entrare nella fibrillazione del voglio tutto qui, ora e come dico io, ed è segno di ateismo pratico, di chi si mette al posto di Dio a stabilire i criteri dell’essere e dell’agire. In qualche maniera la speranza è l’atteggiamento antiidolatrico che si oppone alla sindrome dell’onnipotenza, alla voracità del potere che tanto affatica questo nostro tempo. Se l’ottimismo ti fa manipolare la realtà ancora prima di accoglierla, la speranza ti ci fa entrare dentro, accogliendola per quello che è, accettandone la complessità (tessuto [complexus: ciò che è tessuto insieme] di elementi eterogenei intrecciati in modo inseparabile (E. Morin, 1990), ritrovandovi – spesso in maniera disordinata- elementi che non avresti pensato di incontrare. Qualcuno definisce, ancora, la speranza del credente un atteggiamento che assomiglia a quello di un acrobata che sfida la gravità per vedere le cose da un’altra prospettiva. E se permettiamo al Vangelo e ai suoi paradossi di tracciare la prospettiva, ecco che superiamo la sfiducia da una parte, dall’altra un irenismo sciocco che dice che va tutto bene o che andrà tutto bene nel futuro, ma assumiamo la condizione di donne e uomini incarnati nella storia, in quella storia che il Signore ha scelto di abitare vivendola dal di dentro. E se da acrobati proviamo a fare questa esperienza, anche per noi – ha proseguito monsignor Checchinato – si apre la parola della Risurrezione. E non perché l’abbiamo studiata a catechismo, ma perché abbiamo fatto l’esperienza di un Dio che sbaraglia la storia, ci siamo accorti che anche per noi come per Pietro e Giovanni che vanno al sepolcro e lo trovano vuoto, la verità è sempre più delle nostre certezze, sempre oltre il nostro delimitare e controllare, sempre più grande delle nostre dimensioni. Solo chi si faceva illuminare la mente dalla speranza poteva far memoria delle parole del Vangelo di fronte al sepolcro vuoto, solo per chi aveva speranza nel cuore lo scomparire dopo aver spezzato il pane ad Emmaus non era nascondimento ma rivelazione, solo per chi guardava con gli occhi intrisi di speranza la ferita aperta del costato del crocifisso non era il segno della morte, ma della vita che rinasce dal sangue e dall’acqua. È più rassicurante vivere con le nostre certezze? Probabilmente nell’immediato è così. Ma vale la pena provare in questa Pasqua a fare l’esperienza dell’acrobata che si lancia con il proprio corpo sfidando la natura e le leggi di gravità, abbandonandoci alla logica iperbolica del Vangelo che ci spinge sempre oltre, e chiedendo al Signore, con i semplici del Vangelo: “Credo, aiutami nella mia incredulità” (Mt 9,24). Ma quando questo succede, diventiamo capaci di credere che la pace verrà, che i potenti saranno sbaragliati dai loro troni e saranno innalzati gli umili, e ci crediamo perché questa speranza cominciamo a viverla noi, come siamo, nel posto che occupiamo, diventando così segno di speranza per i fratelli e sorelle per i quali siamo prossimo. Auguri di Santa Pasqua, con le parole di un grande uomo, un grande credente: “Voi che credete, voi che sperate, correte su tutte le strade, le piazze a svelare il grande segreto… Andate a dire ai quattro venti che la notte passa, che tutto ha un senso, che le guerre finiscono, che la storia ha uno sbocco, che l’amore alla fine vincerà l’oblio, e la vita sconfiggerà la morte. Voi che l’avete intuito per grazia, continuate il cammino, spargete la vostra gioia, continuate a dire che la speranza non ha confini” (David Maria Turoldo)». (redazione@corrierecal.it)
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