Mafiosi in carcere, benefici «solo a chi rompe davvero col passato»
Il presidente del Tribunale di Sorveglianza di Perugia in Commissione: «Per ottenere permessi non basta una buona condotta carceraria»

LAMEZIA TERME «Il tribunale di sorveglianza ha un’importanza notevole per l’efficacia che riesce a dare alla sua azione. Forse la società civile italiana non ha mai realmente metabolizzato l’ordinamento penitenziario e continua a ritenere che i benefici siano spesso dei regali immeritati per la maggior parte dei condannati, in realtà se si vanno a esaminare le statistiche si nota che addirittura l’80% di coloro che hanno avuto l’affidamento in prova al servizio sociale non tornano più a commettere reati».
È un’analisi puntuale quella effettuata da Antonio Minchella, presidente Tribunale di Sorveglianza di Perugia, nell’audizione in Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno delle mafie, che tuttavia non può non tener conto di alcune valutazioni e differenziazioni rispetto all’appartenenza o meno di un detenuto alla criminalità organizzata.

Durante la seduta, incentrata sull’applicazione dell’articolo 41-bis dell’ordinamento penitenziario, nonché dell’articolo 4-bis del medesimo ordinamento con specifico riguardo ai benefici penitenziari concessi a soggetti detenuti per gravi reati di mafia, sono stati affrontati anche i temi riguardanti la valutazione dei comportamenti di chi ha avuto un ruolo importante in un’organizzazione mafiosa. Secondo il presidente, per ottenere ad esempio un permesso premio, «qualunque detenuto è sottoposto a due valutazioni: che abbia tenuto una condotta regolare e che non sia più socialmente pericoloso. Quindi, che la condotta debba essere lineare me l’aspetto come prerequisito, ma assolutamente non è sufficiente». In riferimento alla collaborazione con la giustizia, il presidente è stato ancora più chiaro: «L’articolo 4-bis, per come è scritto, offre all’interprete tutti gli elementi per una valutazione che non dico debba essere severa, ma certamente molto rigorosa», ha spiegato, «tale da rendere chiaro che c’è una differenza per lo Stato fra chi collabora con la giustizia e che potrà accedere a un percorso espiativo molto meno disagevole e chi ha deciso per sua libera scelta, quale che siano le sue ragioni, di non collaborare» e il percorso espiativo che avrà «sarà molto più lungo e più accidentato. Ripeto, non si tratta di crudeltà o di cinismo, ma di una risposta a una pericolosità sociale che ha già provocato grave danno alle popolazioni del territorio», precisa ancora.
«Mai dimenticare cosa fa la ‘ndrangheta»
In Commissione, il presidente risponde nel merito della ‘ndrangheta calabrese, ricordando la sua esperienza proprio in Calabria. «Qui ho avuto anch’io anni di svolgimento della mia professione e ho visto come queste persone costringono a vivere quelli perbene. Si tratta di una cosa che non va mai dimenticata». E poi quanto all’esistenza del clan nel territorio, «il fatto soltanto che esista un clan non è di per sé motivo che possa essere, da solo, causa di un rigetto della richiesta. L’esistenza del clan nel territorio in fin dei conti è una cosa che noi ci attendiamo, il clan di natura mafiosa tende a persistere nel tempo, ma le informative che ci vengono portate dalle forze di polizia territoriali di solito sono in grado di dirci bene se il clan esiste o se magari il clan, una volta denominato “Sempronio”, sì si è disciolto, ma perché è confluito nel clan chiamato “Mevio” e quindi non si può dire che il contesto criminale di riferimento sia svanito», spiega ancora il presidente Minchella. «Questo andrà messo in rapporto a un percorso detentivo lungo che ci attendiamo quantomeno sia irreprensibile».
Differenze tra chi collabora e chi no
Si differenziano due elenchi di reato. Nell’ambito della prima fascia, un primo sottogruppo riguarda la criminalità organizzata di tipo mafioso o terroristico, le associazioni rivolte al narcotraffico, reati di immigrazione clandestina e commercio di tabacchi lavorati esteri. «Per gli autori di questi delitti è stato previsto che il condannato che non collabora con la giustizia potrà accedere ai benefici purché dimostri l’adempimento delle obbligazioni civili e degli obblighi di riparazione pecuniaria», ha spiegato il presidente. Si tratta già di un primo requisito molto severo e impegnativo perché «sino a oggi in questi termini era stato richiesto soltanto per gli istituti che erano connessi al termine del percorso penitenziario, quali la riabilitazione o la liberazione condizionale». Nel tempo è stato indicato, poi, un altro requisito fondamentale delle richieste, cioè che «l’interessato condannato deve allegare all’istanza elementi specifici diversi e ulteriori rispetto alla regolare condotta carceraria, alla partecipazione al percorso rieducativo, alla dissociazione dall’organizzazione. Deve fornire, cioè, degli elementi dai quali – dopo l’apposita istruttoria – il giudice possa ricavare che non c’è più l’attualità di collegamenti con un contesto di riferimento, quello che era stato il terreno di coltura della pericolosità sociale» perché «anche un ottimo percorso penitenziario deve essere sempre connesso alle informazioni che sono pervenute dalle forze di polizia del territorio». E precisa: «Non si chiede quindi al soggetto condannato che dia una dimostrazione di non essere più mafioso, per fare un esempio, ma è tenuto a indicare elementi specifici e concreti che consentano poi a un tribunale di sorveglianza di disporre un’adeguata istruttoria». E se il soggetto condannato non collaborante indica quali sono le ragioni della mancata collaborazione, allora «il tribunale di sorveglianza potrà esercitare i poteri istruttori nella direzione indicata dal soggetto, ma il soggetto può anche mantenere il silenzio sulla sua decisione di non collaborare con la giustizia». (g.curcio@corrierecal.it)
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