REGGIO CALABRIA Canali privilegiati e stabili di approvvigionamento, una fitta rete di pusher ai quali venivano impartite specifiche direttive operative, anche con riferimento agli orari “di servizio”, una clientela che era arrivata ad ammontare a «ben 400 consumatori nel comprensorio di Scilla e Bagnara». Le informazioni più rilevanti in ordine all’esistenza e all’operatività dell’associazione criminale smantellata con l’inchiesta “Lampetra” della Dda di Reggio Calabria – scrivono i giudici – provengono dalla viva voce di Carmelo Cimarosa (durante le dichiarazioni rese durante la sua collaborazione con la giustizia), nipote di Nasone Virgilio Giuseppe, personaggio appartenente alla storica cosca di ‘ndrangheta Nasone-Gaetti.
Dettagli che emergono nelle pagine delle motivazioni della sentenza d’appello del processo che trae impulso da un’articolata indagine del Comando Provinciale dei Carabinieri di Reggio Calabria sull’associazione per delinquere finalizzata allo spaccio di stupefacenti nel territorio di Scilla, composta da Carmelo Cimarosa, Angelo Carina, Silvio Emanuele e Francesco Cimarosa, e da una rete di spacciatori al dettaglio e di fornitori all’ingrosso, operante nell’alveo dell’articolazione territoriale di ‘ndrangheta dominante nel comune di Scilla e nei comuni limitrofi, denominata cosca Nasone-Gaietti, le cui figure di rilievo risultavano essere quelle di Carmelo Cimarosa e di Angelo Carina.
I dati captativi – scrivono i giudici – «restituiscono con chiarezza una suddivisione di settori merceologici di interesse: Cimarosa (considerato «il vertice dell’associazione, il promotore e il collettore delle iniziative delittuose dei sodali») era operativo principalmente nel mercato della cocaina, mentre quello della marijuana erano affidato ai fratelli Silvio, Emanuele e Francesco, che venivano di volta interpellati quando si trattava di trattare o cedere quantitativi di droga leggera. «II sodalizio si dedicava anche alla coltivazione della canapa indiana, per dotarsi di una provvista autoprodotta ed incrementare così i guadagni». Le indagini – si legge nel documento – hanno dimostrato l’abitudine di Cimarosa e dei suoi sodali di approvvigionarsi di cocaina, oltre che da Antonio Alvaro anche presso altri grossisti di Santa Eufemia d’Aspromonte e di Sinopoli.
Sono numerose le conversazioni captate che – secondo i giudici – non lasciano spazio ad altre interpretazioni. «E’ la numero uno», afferma Cimarosa che assicurava così la qualità della cocaina in quel momento disponibile, definita «micidiale».
E in una conversazione, senza mezzi termini Antonio Alvaro ricordava a Carmelo Cimarosa il loro essere stabilmente in affari utilizzando un’espressione – scrivono i giudici – che non ha bisogna di commenti: «Siamo cristiani organizzati». E poi i riferimenti al gruppo criminale contrapposto, gestito da Giuseppe Fulco ed operante nel settore degli stupefacenti nel territorio di Scilla, e all’eventualità che «i provvedimenti giudiziari colpissero i concorrenti, di cui i sodali avrebbero dovuto tenersi pronti ad approfittare per accaparrarsi quote di mercato lasciate scoperte»: «Noi dobbiamo essere pronti (…) Nel momento che li arrestano, usciremo al largo e facciamo mille e cinquecento euro al giorno», dice Cimarosa.
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