A una giornata dal termine del campionato di serie B, almeno della sua fase regolare, sia il Catanzaro che il Cosenza conoscono il proprio destino. Ma se i Lupi, o ciò che resta di loro, avevano raggiunto la retrocessione matematica già prima della sconfitta casalinga contro il Cesena, le Aquile battendo il Sassuolo fuoricasa hanno ritrovato gioco e certezze, compresa quella di disputare i playoff per il secondo anno consecutivo.
Dopo un finale di stagione in apnea, le Aquile sono tornate a volare. Contro il Sassuolo è arrivato il segnale che serviva: cuore, orgoglio e una qualificazione meritata.
Dopo settimane vissute con il fiato corto e i nervi tesi, il Catanzaro può finalmente sorridere. I numeri raccontavano di una crisi, le ultime sette partite avevano fatto temere il peggio (un solo successo, contro il Cosenza a febbraio). Ma proprio quando sembrava che il traguardo potesse sfuggire, è arrivata la risposta che tutti aspettavano: una prova di forza, di carattere, e soprattutto di appartenenza.
Di fronte alla capolista già in A, la squadra di Fabio Caserta ha ritrovato se stessa. Ha ritrovato quella brillantezza che aveva incantato nella prima parte del 2025, mostrando non solo gioco, ma anche spirito di sacrificio e voglia di lottare. E poco importa se, sullo sfondo, aleggiava l’aria di festa dei neroverdi pronti a celebrare la promozione: in campo, le Aquile hanno mostrato di ricordarsi chi sono.
I playoff ora sono una certezza. Una tappa fondamentale che premia il lavoro e la qualità di una società e di un gruppo che, pur tra alti e bassi, ha sempre saputo rialzarsi. E se è vero che la serie A sembra un sogno, è altrettanto vero che sognare con questa squadra non è mai stato proibito.
Crema: la crema della settimana è facile da individuare: la qualificazione ai playoff, prima di tutto. Un traguardo che nelle ultime settimane sembrava vacillare sotto il peso di un calo psicofisico preoccupante. Ma non solo: brillano anche tre nomi su tutti.
Tommaso Biasci, in gol per la terza volta nelle ultime quattro gare, si sta riscoprendo decisivo nel momento più importante del torneo. Federico Bonini, difensore-goleador, è arrivato a quota otto reti stagionali: numeri impressionanti, da categoria superiore. Mirko Pigliacelli, ex di turno, che contro i neroverdi ha parato l’impossibile.
Amarezza: diciamolo chiaramente: questa settimana, di vera amarezza non ce n’è. E allora, un po’ per dovere di rubrica e un po’ perché non ci viene in mente altro, ci tocca inserire Pietro Iemmello. Ma lo facciamo in modo forzato, quasi simbolico.
Il capitano non segna da qualche partita, è vero. E forse la sua classe, in alcune occasioni recenti, avrebbe potuto spingere il Catanzaro a blindare prima i playoff. Ma chi conosce Iemmello sa che quando il livello si alza, lui risponde. Soprattutto se indossa la maglia della sua città. Magari, proprio da lui, arriverà il primo squillo nei match che contano davvero.
Alla fine, il cielo di Cosenza ha parlato. Lo ha fatto venerdì sera, durante una partita che avrebbe dovuto essere inutile ma che è diventata qualcosa di molto diverso. Cosenza-Cesena, atto quasi finale di una stagione dove le parole «retrocessione annunciata» sembrano un eufemismo, è stata interrotta non dai colpi di genio in campo – latitanti ormai da tempo – ma dai razzi pirotecnici lanciati dall’esterno del “San Vito-Marulla”. Uno stadio che, mai come ora, sembra essere diventato un luogo senza amore, senza pubblico, senza calore. Un monumento vuoto in una città piena di passione.
I “fuochi artificiali” non hanno illuminato una festa, ma una frustrazione. Una rabbia sorda, quella dei tifosi rossoblù, che ha deciso di fare rumore. Un gesto (da non esaltare perché potenzialmente pericoloso, ma da comprendere) che sarà stato criticato, definito «barbarico» da chi è abituato a vivere la poltrona presidenziale come un trono e non come una responsabilità. Ma tra un razzo e l’altro, si è levato in cielo un messaggio chiarissimo da parte della tifoseria: «Noi ci siamo ancora. Voi non più».
Eugenio Guarascio, silenzioso regista di una lunga e malinconica disfatta, continua a osservare tutto da una distanza siderale. In 14 anni ha costruito una presenza, sì, ma di quelle che si ricordano come si ricorda un mal di denti: persistente, dolorosa, e alla lunga insopportabile. Il suo è un distacco che brucia più dei fumogeni. È il gelo di chi non ha mai capito che il calcio, a Cosenza, è faccenda di cuore, e non di convenienza e ricchezza personale.
Crema: in questo deserto affettivo spunta, come una piantina fuori stagione, Massimiliano Alvini. Tecnico di temperamento che aveva fatto innamorare una piazza affamata di passione. Nella prima parte della stagione aveva messo in campo coraggio, identità, persino gioco. Poi, nella fase decisiva, quando servivano barricate e megafoni, si è trasformato in un funzionario modello: allineato, remissivo, preoccupato a non farsi sfuggire troppo. È mancata la voce grossa, quella che forse non avrebbe cambiato la classifica, ma avrebbe salvato un po’ di onore.Il suo addio (perché sì, il suo, al termine di Cosenza-Cesena, è sembrato un addio) è arrivato con una frase che suona come una confessione tardiva: «Cosenza il calcio lo vive sulla propria pelle». Verissimo, mister. E forse è per questo che serviva qualcuno in grado di farlo capire davvero a chi muove i fili del gioco. Anche a costo di perdere tutto.
Amarezza: per Eugenio Guarascio, sempre che in settimana, dopo la gara di La Spezia, non decida di ascoltare finalmente la città, la prossima stagione si prospetta interessante: spalti vuoti, tifo inesistente. Il bello è che lui, davvero, potrebbe non accorgersene. La dignità popolare? Un optional. L’attaccamento alla maglia? Una voce di bilancio. Ma, ci scommettiamo, per lui sarà sempre colpa dei «tifosi esagerati», degli «ambienti difficili», delle «difficoltà oggettive. La verità, però, è una sola: ciò che resterà della sua epoca non sarà una promozione in B, ma una retrocessione morale lenta, sistematica e – bisogna ammetterlo – meticolosamente costruita. (f.veltri@corrierecal.it)
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