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la lotta ai clan

Beni confiscati al clan Muto, un fatto di portata storica

Ben sette lotti tra terreni ed edifici. Un fatto storico che accade a più di vent’anni di distanza dall’abbattimento della pescheria sul porto

Pubblicato il: 16/05/2025 – 11:10
di Ennio Stamile
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Beni confiscati al clan Muto, un fatto di portata storica

In questi giorni ho avuto netta la sensazione che a molti è passata quasi inosservata la notizia della confisca dei beni al clan Muto di Cetraro.
In Calabria si è assuefatti a notizie di sequestri e confische di vario genere. Questa, però, non dovrebbe esserlo in alcun modo. Per chi conosce la triste storia di questo storico clan – con il suo boss ultraottantenne e il figlio primogenito destinato sin dalla nascita a succedergli, ora ospite delle patrie galere, luogo dove ha trascorso sino ad ora più della metà della sua non certo brillate esistenza – è la prima volta che vengono confiscati beni di così ampia portata, ben sette lotti tra terreni ed edifici. Un fatto storico che accade a più di vent’anni di distanza dall’abbattimento della pescheria sul porto.  
La settimana scorsa prima che la notizia si divulgasse, ho avuto il piacere di incontrare il Commissario Straordinario del Comune di Cetraro, il viceprefetto Mauro Passerotti, con il quale mi sono a lungo intrattenuto in un lungo e piacevole colloquio, oltre che sui beni confiscati, anche sulla situazione di questo splendido lembo di costa tirrenica che il citato clan, insieme ad altri due sorti di recente, contribuiscono a contagiare. La loro signoria territoriale viene alimentata con le solite azioni criminose: coercizione, usura, racket, estorsione, traffici di droga e di armi e la violenza esercitata in diverse sue forme. È stato piacevole dialogare con il Commissario Passerotti, persona di alta levatura morale e culturale, che a differenza di molti, politicanti di mestiere o gettati per caso nell’agone politico, finalmente mi ha offerto la possibilità di andare oltre le solite chiacchere da piazza e da bar.
A distanza di circa trent’anni dalla legge 109/96 che ha previsto il riutilizzo dei beni confiscati anche a scopi sociali e culturali, la loro valorizzazione è un’azione concreta nella lotta contro le mafie e possono diventare, se ben utilizzati, strumento per la progettazione di percorsi di legalità, giustizia sociale e occasione per creare posti di lavoro in contesti in cui il lavoro continua a essere una chimera. Argomenti come questi difficilmente trovano spazio nelle campagne elettorali dove si preferisce parlare di altro, chissà forse per evitare di rompere alcuni equilibri, oppure perdere consensi per coloro che legati a doppio mandato a certi contesti mafiosi ancora oggi “gestiscono” pacchetti di voti.
Ieri a San Luca con un altro Commissario Prefettizio Antonio Reppucci che stimo da sempre, da quado l’ho conosciuto e apprezzato da Prefetto, abbiamo rilanciato la Scuola della Pace che come UniRiMi “Rossella Casini”, abbiamo pensato e realizzato anche nei comuni di Platì e Careri. Siamo entrambi convinti che lavoro, cultura e sport, sono l’antidoto efficace per sconfiggere il virus della ‘ndrangheta. Soprattutto quando l’azione culturale vede come protagonisti giovani delle scuole superiori che accompagnano nel doposcuola i bambini delle scuole elementari. Un metodo consolidato dal oltre mezzo secolo dalla Comunità sant’Egidio con la quale, assieme ai Padri Comboniani, collaboriamo per “costruire ponti” fondati sui pilastri di una pace – come suggerisce Papa Leone XIV – «disarmata e disarmante». (redazione@corrierecal.it)

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