LAMEZIA TERME Una nuova ondata di arresti (seppure contenuta nei numeri) ma significativa nell’obiettivo colpito. Perché a Lamezia Terme passano gli anni ma il “potere” criminale continua ad essere esclusiva di volti e famiglie note, in una logica di continuità ‘ndranghetistica ricostruita dagli inquirenti della Dda di Catanzaro e culminata con 8 arresti contro gli appartenenti alla famiglia Iannazzo-Cannizzaro-Daponte mentre in tutto sono 12 gli indagati.
Ma c’è un aspetto sottolineato dal gip del Tribunale di Lamezia Terme nell’ordinanza di custodia cautelare e che va oltre gli arresti eseguiti. Già perché durante la fase investigativa sono emersi elementi «significativi» che costituiscono elementi gravemente indizianti «della attuale persistenza e ultra-attività del sodalizio di stampo mafioso».
Quella ricostruita dagli inquirenti, infatti, è una struttura in grado di assicurare ristoro finanziario ai sodali colpiti da provvedimenti di carcerazione, alla esistenza di una “bacinella” finanziaria, al controllo sul territorio che si sarebbe manifestato attraverso il ricorso ai membri del sodalizio per risolvere questioni personali da parte dei cittadini. Durante la fase investigativa sono emersi alcuni soggetti – non indagati o raggiunti da misura cautelare – che hanno manifestato il loro “sostegno” alla famiglie dei detenuti. C’è un imprenditore, soggetto contiguo alla criminalità locale, che si era messo a completa disposizione di Francesco Iannazzo mentre era in attesa della sentenza della Cassazione, pronto a garantire il suo supporto incondizionato al figlio, Pierdomenico.
Un segnale significativo, specchio di un certo “asservimento” di numerosi imprenditori locali che, come emerso dall’inchiesta, effettuavano versamenti di denaro in favore della ‘ndrina Iannazzo materialmente nelle mani di Francesco Amantea e Giovannina Rizzo, moglie del capocosca Francesco Iannazzo, da destinare al sostentamento economico della famiglia in seguito alle carcerazioni. Insomma, la classica “bacinella” del gruppo ma non solo: dall’indagine, infatti, è emersa sia l’esistenza di un libro contabile nel quale venivano annotate tutte le entrate, sia l’esistenza di un sistema di progressivo accantonamento del denaro che non veniva spartito subito ma distribuito solo nei momenti emergenziali.
La ‘ndrina Iannazzo, dunque, operava attraverso un capillare controllo del territorio. Lo stesso capocosca, ad esempio, fu contattato da un suo conoscente affinché «intercedesse a favore di un amico» con un noto concessionario della zona per «ottenere prestazioni o beni a prezzi sensibilmente inferiori a quelli di mercato». Ancora Iannazzo fu contattato da un appartenente alla cosca Giampà per intervenire presso un cantiere dell’autostrada e mettere in atto un’azione estorsiva. Inoltre, alcuni commercianti lametini sarebbero stati costretti a chiudere le loro attività a causa delle richieste estorsive perpetrate nel tempo dal capocosca. L’influenza di Francesco Iannazzo nel tessuto economico e sociale di Lamezia Terme si sarebbe tradotto anche con il suo intervento diretto nella risoluzione di alcune problematiche tra imprenditori. In un caso, ad esempio, avrebbe fatto pressioni al responsabile di un supermercato nel quartiere Capizzaglie affinché «quest’ultimo estinguesse un debito nei confronti del titolare di un panificio», in relazione a non meglio precisate forniture di pane, dal cui recupero lo stesso Iannazzo avrebbe comunque preso la propria parte in denaro.
Insomma, gli inquirenti sono certi di aver fatto luce sulla spiccata resilienza della famiglia Iannazzo nei momenti di maggiore fibrillazione. Come ad esempio – ed è un caso emblematico – è arrivata la condanna in Cassazione per il boss Francesco. In quel caso, i sodali con il contributo reciproco e potendo contare ciascuno sull’apporto dell’altro, sarebbero riusciti a subentrare negli affari di famiglia, garantendone la prosecuzione e i guadagni fondamentali per il sostentamento della ‘ndrina. (g.curcio@corrierecal.it)
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