LAMEZIA TERME «A questo punto non posso esimermi dal dirvi la verità, sebbene temo che possa subire delle conseguenze». È la presa di coscienza, a tratti drammatica, di un imprenditore edile che, a Lamezia Terme, ha dovuto fare i conti con le “pressioni” di alcuni appartenenti alla cosca di ‘ndrangheta dei Iannazzo. E davanti all’evidenza dei fatti la vittima non ha potuto far altro che spiegare agli agenti del Commissariato lametino ciò che aveva effettivamente subito.
Il protagonista della vicenda è Vincenzo Iannazzo (cl. ’90), figlio di Antonio, finito in manette nell’operazione condotta da Carabinieri e Polizia. Dalle indagini, infatti, sarebbe emerso come il 12 febbraio del 2024 Vincenzo Iannazzo fosse entrato in un capannone industriale mentre era in corso una riunione e, dopo aver preso da parte il titolare, avrebbe chiesto, senza mezzi termini, «il pagamento di una somma di denaro non quantificata per contribuire alla situazione di momentanea difficoltà della sua famiglia». Il motivo? La recente condanna a 30 anni di carcere inflitta a Pietro Iannazzo e perché proprio l’azienda aveva acquistato un bene appartenuto alla ‘ndrina.
«(…) ad un certo punto, vedevo aprirsi la saracinesca del capannone dove ci trovavamo e comparire Vincenzo Iannazzo che mi diceva, con fare deciso, che avrebbe dovuto parlarmi…». «Dichiarandosi solo ambasciatore, mi riferiva che siccome Pietro Iannazzo aveva subito una condanna a trent’anni e che quindi si evidenziavano problemi di natura economica, avrei dovuto contribuire economicamente senza però indicarmi alcuna cifra…». L’imprenditore, risentito poi a marzo 2025, ha confermato di fatto quanto avvenuto. «(…) ha esordito ricordandomi l’acquisto dell’immobile, facendo immediatamente dopo cenno allo stato detentivo di Pietro Iannazzo (…) a questo punto mi ha salutato dicendomi testuali parole: “poi vediamo”, ed è andato via…» quando l’imprenditore aveva risposto in modo negativo. Richiesta che sarebbe avvenuta sul marciapiede, fuori, davanti l’ufficio.
L’immobile in questione è proprio quello della sede dell’azienda, in passato già di proprietà del padre della vittima negli anni ’80, poi finito in mano ad una società gestita proprio dai Iannazzo e, ancora, finito all’asta nel 2017. Secondo il gip, dunque, si tratterebbe di «tentata estorsione aggravata da metodo e finalità mafiose» perché la condotta di Vincenzo Iannazzo è ritenuta come «lineare attuazione della spasmodica ricerca di denaro» avviata dal clan dopo la carcerazione del boss Francesco Iannazzo. Il gip tiene conto, poi, della minaccia implicita: dall’allusione alla recente condanna a trent’anni nonché la specificazione che il denaro «sarebbe servito per sgravare la famiglia Iannazzo dalle conseguenze economiche della condanna di Pietro» oltre alla precisazione di agire come «semplice ambasciatore» che presuppone l’esistenza di una o più persone cui rendere conto in caso di rifiuto. (g.curcio@corrierecal.it)
Il Corriere della Calabria è anche su WhatsApp. Basta cliccare qui per iscriverti al canale ed essere sempre aggiornato
x
x