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la ricostruzione

La più “incompiuta” tra le “incompiute”. L’horror story della Diga sul Melito

Un’opera concepita e finanziata negli anni ’80, ai tempi della Cassa del Mezzogiorno, e mai realizzata tra contenziosi, errori progettuali e scaricabarile

Pubblicato il: 22/05/2025 – 14:18
di Antonio Cantisani
La più “incompiuta” tra le “incompiute”. L’horror story della Diga sul Melito

CATANZARO La Diga sul fiume Melito – la cui mancata realizzazione per la magistratura contabile ha provocato un mostruoso danno erariale da 260 milioni – non può nemmeno fregiarsi dell’appellativo di “cattedrale nel deserto”, perché il deserto c’è ma non c’è la cattedrale. In realtà è probabilmente l’incompiuta delle incompiute, se non la più grande sicuramente tra le incompiute più grandi della Calabria che è la terra del non finito, la terra che non finisce le cose soprattutto quando queste cose in realtà servono. La diga “fantasma”, l’hanno anche definita in tanti: giustamente, perché la Diga sul fiume Melito, concepita negli anni ’80, non è stato altro che qualche colpo di piccone e qualche zolla di terra mossa dalle ruspe nel cuore della montagna sopra Catanzaro e nulla più. E’, soprattutto, la Diga sul fiume Melito, forse il simbolo perfetto e quasi iconico di come in Italia e nella nostra regione si sperperano masse enormi di risorse pubbliche tra polemiche, contenziosi, progetti sbagliati, rimpalli di responsabilità ed errori marchiani. Una “horror story”, verrebbe da definire la parabola di questa grandissima infrastruttura che doveva sorgere in un lembo montuoso del Catanzarese che incrocia tre Comuni – Fossato Serralta, Gimigliano, Sorbo San Basile – e invece in quasi 50 anni non ha mai visto la luce. Dovera dare acqua ed energia a mezza Calabria, una “manna” sia per gli agricoltori sia per i cittadini di mezza regione, ma non ha mai dato né acqua né energia. Il paradosso di una diga che non c’è. Quella diga che non c’è e che ha anche deluso tanti turisti, attratti dalle guide che parlavano di un “immenso Lago Azzurro” (altro nome dato alla Diga del Melito) incastonato tra i monti ma che poi si rivelava essere giusto uno sprazzo di cantiere mai realmente operativo.

La storia

E dire che le premesse erano ben altre. Erano i tempi della gloriosa ma anche controversa Cassa del Mezzogiorno, e della moneta nazionale che era la lira. La Diga sul fiume Melito viene concepita e finanziata negli anni ’80, per 500 miliardi di lire (i 260 milioni circa del danno erariale oggi contestato dalla Corte dei Conti della Calabria, per l’appunto). Ente appaltante il Consorzio di Bonifica Ionio Catanzarese, e già qualche mugugno considerando la grandezza dell’opera da costruire a fronte di un organismo dai numeri e dalla struttura comunque gracili. Conclusione dei lavori prevista inizialmente nel 1992. Il progetto è ambiziosissimo: costruire il più grande invaso del Sud, il terzo per capienza in Europa, una corona di un chilometro e mezzo, un muro di cemento alto 108 metri e la possibilità di accogliere 108 milioni di metri cubi d’acqua. Sette anni per aggiudicare la gara, che nel 1990 viene vinta da Italstrade, uno dei colossi delle costruzioni in Italia. L’appalto iniziale è di 98 milioni di euro, sul costo stimato pari a 260 milioni. Il cantiere apre e chiude nel giro di tre anni: ci si accorge che ci sono problemi di tenuta nella parete destra del nascente invaso e con una variante, costosissima, si decide di rinforzare la struttura.

Il contenzioso

Il cantiere riparte, ma ecco un nuovo stop. Inizia un contenzioso sulle competenze e sulle autorizzazioni tra i ministeri dei Lavori pubblici e dell’ambiente, da una parte, la Regione e il Consorzio di bonifica Alli – Punta di Copanello, guidato dal presidente Grazioso Manno, cuore di leone dietro tratti nobiliari ed eleganti che imbastirà un’autentica (ma inutile) “crociata”. Trascorrono dieci anni nel silenzio più assoluto su questa opera, nel frattempo la Italstrade viene rilevata da quell’altro colosso del cemento che è la Astaldi che inizia un contenzioso con il Consorzio di bonifica chiedendo 53 milioni di euro per il pagamento dei lavori fino ad allora eseguiti, il risarcimento danni e il mancato lucro. Si sceglie la strada di un lodo arbitrale che nel 2008 dà ragione alla Astaldi per una cifra che si aggira intorno ai 35 milioni di euro. Il governo Berlusconi comunque inserisce l’invaso nelle grandi opere e stanzia 262 milioni di euro con una nuova deadline per la conclusione dei lavori: il 2010″.  Ma il cantiere si blocca nuovamente: anche la Astaldi ha dubbi sulla tenuta della spalla destra rivestita e imbastisce un arbitrato per dirimere i problemi tecnici. L’arbitrato darà ragione alla Astaldi: l’opera così com’è non sarebbe sicura, dice il dispositivo. Il Consorzio di bonifica Ionio Catanzarese non si arrende, cerca sponde istituzionali nella Regione e nei vari governatori nel tempo succedutisi alla guida della Calabria (senza peraltro trovare granché riscontro) e riappalta i lavori alla Safab, che però a sua volta incapperà in una interdittiva antimafia da parte della prefettura di Roma. Nel 2009 comunque il cantiere riparte ma a singhiozzo, fino a bloccarsi definitivamente.

L’epilogo

E’ il 2009, cioè a quasi trent’anni dall’approvazione della delibera della Cassa del Mezzogiorno. Le ultime mosse disperate. Il Consorzio di bonifica appalta a una ditta di ”fiducia” i lavori per le gallerie, spendendo altri 24 milioni di euro mentre continua la lite con la Astaldi. Nel 2020 l’epilogo, il triste epilogo: anche il ministero delle Infrastrutture dice di averne abbastanza e comunica al Consorzio la revoca della concessione per la realizzazione dell’invaso, costata nel frattempo già 104 milioni di euro. La pietra tombale sul progetto. Soldi pubblici divorati per una diga che non c’è. Doveva portare acqua ed energia a mezza Calabria, ma di acqua ed energia nessuno, in quel lembo delle montagne catanzaresi, ha visto nulla. (a.cantisani@corrierecal.it)

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