I soliti editoriali e i ragazzi che devono apprendere l’affettività ma non le preposizioni
Ci troviamo davanti a un’alternativa tragica: per non far crescere i ragazzi disadattati li facciamo crescere ignorantissimi, analfabeti, con corsi di recupero a 23 anni

Disclaimer iniziale: questo pezzo è a forte rischio di incomprensione, vivamente sconsigliato a chi non sa usare i pronomi relativi ma continua a ripetere, commentando qualunque cosa, che è una questione culturale e che la scuola dovrebbe fare di più. Non vi racconterò lo strazio dei balbettamenti di maturandi di un liceo classico messi davanti a un testo del quale non decodificano il linguaggio figurato, il lessico, niente.
E all’invito a fare una prova di scrittura mettendo a confronto un testo generato da loro, dunque dall’intelligenza umana, con uno, sullo stesso tema, generato dall’intelligenza artificiale, ho avuto io difficoltà a capire chi aveva copiato da chi.
Dire che basta Google è un’illusione, che se su Google non sai cosa cercare e in che contesto inserire la ricerca ti resta l’abissale ignoranza e in più la protervia di percepirti informato. Sei, in ultima analisi, un ciuccio e ciuccio rimani.
Fatta questa premessa mi preme concentrarmi sul dibattito di questi giorni, e cioè che per prevenire la violenza di genere è necessario insegnare affettività nelle scuole.
Prima di inoltrarvi nella lettura, ribadisco l’invito, scusate la presunzione, se non siete attrezzati sintatticamente lasciate perdere il prosieguo. Perché nel prosieguo scrivo che a furia di dire che a scuola si va per essere educati alla pace, e poi per essere educati all’affettività, e poi ai valori europei, e poi alla tutela dell’ambiente, e poi alla body positivity, ma questi insegnanti quale corso di psicologia forense e o di ingegneria mineraria o di diritto internazionale devono aver fatto per essere all’altezza dell’ingrato compito omnia, soprattutto se, loro stessi, sono un esempio della laurea come diritto di cittadinanza da garantire a tutti e lo hanno acquisito da Pegaso, o in Svizzera, o – i più ricchi – a qualche Campus a Roma, tanto paghi e sei promosso. Quindi abbiamo creato, negli ultimi anni, un mondo di laureati ciucci ai quali sarebbe già difficile chiedere di insegnare a leggere e a scrivere ai propri allievi. Ma oggi siamo oltre.
La scuola non ti chiede più di insegnare agli studenti delle nozioni, quell’idea della scuola che ti insegnava la letteratura, e prima della letteratura a leggere e a scrivere e a capire un testo e a comporne uno, quella cosa lì è finita, un relitto per nostalgici: oggi la scuola ti chiede di insegnar ai ragazzi a vivere.
Ora mi verrebbe da scrivere: è una questione complessa. E ammetto che in questi giorni a furia di leggere editoriali sull’affettività, Google (sempre Google) mi suggerisce app con le quali inquadrando le piantine di basilico della mia cucina con il telefonino, sarei in grado di capire se stanno soffrendo o godono di benessere. Ci troviamo davanti a un’alternativa tragica: per non far crescere i ragazzi disadattati li facciamo crescere ignorantissimi, analfabeti, con corsi di recupero a 23 anni, tutti al soglio accademico senza capacità di comprendere un testo, che tanto se poi si arriva troppo fuori corso c’è “la telematica”, utile anche a quelli che stanno per andare in pensione nella Pubblica amministrazione e con una laurea comprata fanno quello scatto che ti consente di andare “col massimo” in quiescenza. Così capita che al concorso in magistratura li bocciano tutti perché non conoscono la grammatica, gli impiegati delle farmacie non sanno leggere il bugiardino e si trova contorto il discorso del ministro Giuli perché ci si perde nelle subordinate. Ora non dico che bisogna fare come quei professori di filologia greca che all’esame innanzitutto controllano i libri per vedere se hai messo i puntini della metrica con la matita e guardano pure attentamente portandosi i fogli agli occhi perché avendo una certa età non ci vedono bene e non si fidano dei ragazzi (ce ne sono ancora, oggi, benedetti) ma vogliamo provare a bocciare chi ha grosse difficoltà nello scrivere? Mettono male la punteggiatura, usano i verbi sbagliati, confondono le preposizioni, non sanno fare un riassunto e creiamo una norma di immunità didattica come esiste l’immunità parlamentare per gli insegnanti i quali, però, a loro volta dovrebbero superare un concorso come si deve, un concorso cioè che valuti innanzitutto la capacità di orientarsi nella lingua madre e poi sì, anche “specifiche competenze psicologiche, fondamentali per una gestione efficace dell’aula e per la creazione di un ambiente di apprendimento positivo e inclusivo”. Perché così è una catena di ciucciaggine e ci troviamo editoriali sul disagio giovanile che teorizzano che bisogna sforzarsi di crescere ragazzi “di cui” avere fiducia, intendendo “in cui”. Non è un peccato veniale, è che non sappiamo più usare le parole per spiegarci e farci capire.
E quando non si sanno usare le parole e non si intendono le parole dell’altro, allora si corre il rischio di gesticolare e poi di forzare le mani e magari prendere una pietra e colpire chi abbiamo di fronte perché non conosciamo altro linguaggio. (redazione@corrierecal.it)
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