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l’evento

Radici cucite a mano. Il Festival di San Giovanni in Fiore e la resistenza della bellezza

La terza edizione del Festival del costume tradizionale calabrese ha trasformato la città florense in un teatro a cielo aperto

Pubblicato il: 21/06/2025 – 12:38
di Emiliano Morrone
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Radici cucite a mano. Il Festival di San Giovanni in Fiore e la resistenza della bellezza

SAN GIOVANNI IN FIORE C’è un momento, tra le pietre postmoderne dell’isola pedonale di San Giovanni in Fiore, in cui il silenzio si fa corpo. Nonostante i tamburi battenti, lo si avverte quando, una dopo l’altra, avanzano ragazze giovani, fiere, bellissime, il cui sguardo esprime emozione, appartenenza, una dolcezza austera. Sono donne che indossano abiti che paiono usciti da un sogno antico: stoffe pregiate, ori, pizzi, forme che raccontano un’altra Calabria, quella della povertà ricca, della comunità, degli amori romantici o dei legami di vicinato, delle mani che cuciono, delle madri che tramandano, dei paesi che resistono.

L’evento

Venerdì 20 giugno, la terza edizione del Festival del costume tradizionale calabrese ha trasformato la città florense in un teatro a cielo aperto: un rito pubblico, una chiamata collettiva alla memoria, alla cura, all’identità. San Giovanni in Fiore, luogo aspro ma profondo, ha accolto quattordici Comuni da ogni angolo della regione, ciascuno con la sua storia, il suo costume, il suo modo di opporsi all’oblio. Castrovillari ha vinto la preziosa corona aurea realizzata da GB Spadafora, con la pacchiana vestita di seta celeste, ricami d’oro e una gonna che sembrava danzare da sola. Ma la vera vittoria è stata un’altra: aver dato voce ai territori, ai popoli dimenticati, alle tradizioni che sanno ancora parlare a chi ha occhi per vedere.
«San Giovanni in Fiore si è confermata capitale del costume tradizionale», ha detto la sindaca Rosaria Succurro, che ha costruito l’iniziativa con una visione precisa: restituire alla Calabria la dignità della sua storia minuta, quella che non si insegna ma si eredita. Non è retorica: in un mondo che livella gusti e impone mode globali per vendere, qui si è scelta la lentezza, la differenza, la memoria.

Difatti un abito tradizionale non è un travestimento. È invece una sorta di mappa, in cui ogni piega racconta un modo di abitare il mondo e ogni ricamo indica una protezione, un codice, un’affermazione di sé. Lo sapeva bene l’antropologo ed etnologo Giuseppe Cocchiara, quando scriveva che «il costume popolare non è che la forma esteriore, visibile, di una cultura interiore, profonda, che il popolo ha elaborato nel tempo». Lo sapevano bene i giurati – Marcello Perrone, Vittoria De Luca, Giancarlo Spadafora e Domenico Caruso, sotto la guida di Anton Giulio Grande, presidente di Calabria Film Commission – che hanno assegnato i premi tenendo conto del valore estetico e simbolico degli abiti, come della coerenza storica, della ricchezza artigianale, dell’identità trasmessa.
L’abito delle spose arbëreshe di San Giorgio Albanese, con il velo (tuvala) e gli ori come linguaggio affettivo, parla di esilio e appartenenza. Quello di Rizziconi, ispirato alle corti barocche, racconta l’epoca in cui anche l’abbigliamento doveva tenere dritta la schiena, sotto lo sguardo del potere. Caraffa di Catanzaro ha portato un pezzo di Albania in Calabria, con la linja ricamata a mano, ponte tra madri e figlie. Acri ha costruito il proprio abito senza un modello codificato: ha ricucito brandelli di memoria orale e gesti tramandati. Tiriolo, infine, ha offerto una sintesi raffinata di equilibrio e sobrietà, con gioielli borbonici e stoffe del primo Novecento.
Il Festival, organizzato dal Comune di San Giovanni in Fiore con la direzione artistica di Luigi Vircillo, ha trovato casa nella Settimana del turismo delle radici, sostenuta da Regione Calabria, Provincia di Cosenza, ministero degli Affari esteri e della Cooperazione internazionale, Parco nazionale della Sila e Federazione italiana tradizioni popolari. Hanno partecipato anche Daniele Soro per il Ministero degli Esteri e Liborio Bloise, commissario del Parco della Sila, insieme a numerose autorità civili e militari.
Hanno condotto la serata il giornalista Ugo Floro e l’interprete Rosanna Garofalo, i quali hanno dato ritmo, respiro e calore al racconto collettivo che si è snodato tra costumi e parole. Floro, nell’intervistare Soro, si è riferito alla pace con un pensiero sentito ai teatri di guerra in Europa e al confine orientale del Mediterraneo.
«Le tradizioni sono segni vivi che parlano ancora alle nuove generazioni», ha scandito la sindaca Rosaria Succurro. E qui le nuove generazioni c’erano in presenza: ragazze che hanno indossato un costume per orgoglio identitario, non per moda o tendenza vintage. Che l’hanno fatto per sottolineare di essere un pezzo della loro storia. Perché l’identità, quando è autentica, non isola ma unisce: tiene insieme i fili e li fa brillare.

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