Bevilacqua: non esiste autocombustione a queste latitudini
Incendi in Calabria: spegnere si può. Ma non ci sono serie politiche di prevenzione dei roghi estivi in una delle regioni più forestate d’Italia

I piromani vogliono il vento. Non importa se di levante o di ponente, se da nord o da sud. Il vento basta ad attizzare i loro fuochi interiori, a liberare la ferocia che è in loro. Hanno solo bisogno di una piccola esca da collocare sull’orlo di una strada per soddisfare il loro odio verso la vegetazione, per dar loro la certezza di ripulire il mondo da quella dimostrazione di vita che sono le piante, da quella prova definitiva dell’inferiorità dell’uomo che ogni estate li provoca dall’impenetrabilità di una prateria, di un felceto, di una gariga, di una macchia, di un bosco. La loro è un’attesa di riscatto delle loro esistenze altrimenti inutili, è una malvagia prova di forza che gli regala quell’orgasmo che non sanno procurarsi in altro modo.
In questi giorni bruciano i territori di Tortora, Aieta, Orsomarso, Verbicaro e giù lungo la Catena Costiera sino a Paola. Bruciano quelli di Plataci e Villapiana. Brucia la Statale dei Due Mari, Brucia il Vibonese e Capo Vaticano. Bruciano S. Andrea Apostolo allo Ionio, Roccella, l’Aspromonte meridionale. Le fiamme hanno lambito il Parco del Pollino a Castrovillari, sono penetrate nel Parco della Sila a S. Giovanni in Fiore. Brucia l’Aspromonte meridionale e orientale.
Ma i piromani non hanno fretta. C’è ancora tutto agosto per incendiare il resto: il Marchesato Crotonese, il Catanzarese, L’Istmo, il Lametino, le colline attorno a Reggio Calabria, quelle intorno a Cosenza e Rende, le pendici della Valle del Savuto. C’è ancora tempo per mandare in fumo i pini loricati, del Pollino, i pini larici della Sila, le querce dell’Aspromonte. Sino a che non si vedrà più orizzonte da cui non si levi il furente crepitare delle fiamme, il fumo soffocante della cenere, il marrone desolato della vegetazione bruciata.
Eppure erano state strombazzate misure eccezionali, fra cui gli ormai famosi droni, che centinaia di operatori ingaggiati della Regione dovevano far alzare in volo per sorprendere gli incendiari. Ma le cose serie che si possono fare – e che pure si erano imparate in tanti anni di esperienza sul campo – nessuno le fa più. E allora riproviamo a spiegare per l’ennesima volta.
La Calabria, con 650 mila ettari di boschi (dati INFC) è fra le quattro regioni più forestate d’Italia insieme a Trentino-Alto Adige, Piemonte e Toscana. Dal dopoguerra in avanti sono stati ricostituiti oltre 150 mila ettari di nuovi boschi grazie alle leggi speciali per risanare il dissesto idrogeologico. E mentre crescevano i pini piantati dagli operai forestali (comparto oggi in totale dismissione), crescevano spontaneamente decine di migliaia di ettari di nuovi boschi di querce, di lecci, di ontani, di sughere nei terreni abbandonati dai pastori e dai contadini. E poiché la Calabria è in massima parte montagnosa (solo il 9% del suo territorio è in piano) ed è la più piovosa fra le regioni a sud dell’Arno, i boschi e le foreste hanno riconquistato gran parte di quei territori che l’uomo aveva denudato. Chiunque abbia terreni in montagna o in collina che ancora coltiva è dunque circondato dal bosco. E con il bosco deve fare i conti: un fuoco appiccato anche senza dolo in un campo per bruciare la sterpaglia finisce quasi sempre per propagarsi ai boschi circostanti.
Non esiste autocombustione a queste latitudini. Il fuoco deve essere necessariamente appiccato dall’uomo e lo si fa per varie ragioni: per pulire i propri terreni piuttosto che farlo con le fresatrici dei trattori e i decespugliatori; per “pulire” i fianchi delle strade; per far dispetto al vicino; per favorire la ricrescita dell’erba nuova; per vandalismo; per riaffermare la superiorità umana sulla natura; per pura follia distruttrice.
Oggi non esistono serie politiche di prevenzione dei roghi estivi. Basterebbe che tutte le forze dell’ordine (nessuna esclusa) che ogni giorno perlustrano il territorio fossero incaricate di recarsi presso ogni casa, ogni podere, ogni campo da dove esala del fumo: gli incendi estivi sono divenuti un serissimo problema di ordine pubblico ed i prefetti potrebbero diramare ordini in tal senso. Anche perché d’estate vige un preciso divieto di accendere fuochi liberi ovunque. Basterebbe che si facessero serie indagini preventive dirette a sorprendere coloro che ogni anno (sono sempre gli stessi) appiccano il fuoco con perquisizioni, pedinamenti, intercettazioni ambientali etc. Nell’impossibilità di ripristinare le competenze locali delle vecchie stazioni dell’improvvidamente soppresso Corpo Forestale dello Stato, occorrerebbe trovare un sistema per riportare sui territori la lotta agli incendi. E poi, una volta per tutte, bisogna smetterla di pensare che tutto si debba fare con i mezzi aerei: cruciali sono state sempre l’immediatezza degli interventi a terra, la perizia e l’abitudine di squadre specializzate, la conoscenza del territorio. In mancanza di tutto questo non si risolverà mai nulla e ogni anno la dolcezza delle nostre estati sarà offuscata da questa piaga indelebile che nessuna istituzione sembra prendere sul serio. Eppure piccoli esempi virtuosi li abbiamo anche in Calabria. A Santa Caterina sullo Ionio, dove un incendio partito dalle colline circostanti si propagò nel 1983 anche all’abitato con danni ingentissimi, la gente ha compreso e si è organizzata nella prevenzione, con comportamenti virtuosi che per quarant’anni hanno preservato quel territorio.
*Avvocato e scrittore
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