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il tour del cantautore

La magia di Brunori Sas a Cirella: amore, impegno e Palestina

Il racconto della seconda tappa consecutiva (da sold out) in Calabria del cantautore cosentino

Pubblicato il: 09/08/2025 – 11:44
di Francesco Veltri
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La magia di Brunori Sas a Cirella: amore, impegno e Palestina

COSENZA A Cirella, tra i ruderi e il mare che sa di gelsomini e disincanto, ieri venerdì 8 agosto non è andato in scena un semplice concerto (il secondo di fila da sold out), ma un ritorno a casa. Un ritorno vero, viscerale, quasi carnale. Quello di Dario Brunori, in arte Brunori Sas, tornato a cantare nella sua Calabria che lo ascolta sempre con l’orecchio teso e il cuore già sgualcito.
Già alle 19.30, la strada che porta ai ruderi è un blocco di lamiere, fari accesi e gente che sbuffa, canta, ride. C’è chi parcheggia sotto, al cimitero, chi arriva alla meta a piedi, scalando pendenze di alte percentuali, con le magliette piene di frasi di canzoni tatuate a memoria. Mentre al centro della strada le frizioni delle automobili in coda danno all’aria un sapore decadente. Alcuni ragazzi sembrano reduci da un raduno religioso. Lo è, in fondo. Ma senza incenso, con tanto sarcasmo.


Nel frattempo, tra la folla in attesa di raggiungere il teatro all’aperto, si aggira Dario Della Rossa – tastierista storico della band del cantautore cosentino – che saluta parenti, accompagna la famiglia a sedersi, chiacchiera con chiunque lo riconosca. Nessuna distanza tra palco e platea, nessun filtro. In fondo, qui si gioca in casa. E casa, si sa, ha un’altra grammatica.
Alle 21.30, puntualissimo, con alle sue spalle uno scorcio mozzafiato di un pezzo di tirreno cosentino, il concerto inizia. Brunori apre con “Al di là dell’amore” e subito dopo saluta il “popolo delle Calabrie” con quella sua megalomania ammiccante che è una maschera e una corazza. Legge uno striscione: «Qui con una vertebra rotta». «E chini t’ha fatta fa?», risponde lui. Prime risate, primi applausi.
Da lì in poi è un saliscendi tra politica, amore, ironia e dolore. “La ghigliottina” e “L’uomo nero” sono pugni allo stomaco ben assestati. Non fa sconti, Brunori. Né ai governanti, né al paese in cui si canta di tutto tranne che della realtà. “Secondo me” scava ancora più giù: «Parliamo sempre di Salvini, di immigrati e clandestini, ma in un campo rifugiati a noi non ci hanno visto mai». Da qui si capisce bene, per chi di lui sa ancora poco o in questo momento storico di prese di posizione timide o tardive, si aspetterebbe gesti e parole più dirette, da che parte sta. E il pubblico, a occhio e cuore, sta con lui.
La gente continua ad arrivare anche a concerto inoltrato, ma non si sa dove metterla. Ci sono turisti, famiglie, vecchie coppie, signore ampiamente sopra i 60 che cantano tutto ciò che si può cantare. Ma ci sono soprattutto i cosentini. Tanti, tantissimi. Qualcuno sotto il palco sventola una bandiera palestinese. Non è folclore, è presenza.


Tra un brano e l’altro, Brunori scherza. «Ormai sono disponibile per battesimi e comunioni», dice dopo aver fatto gli auguri di laurea a qualcuno tra il pubblico. Poi torna al dialetto, quello stretto, affettuoso, «Non svacchiamolo subito ‘sto concerto, un ni facimu canuscia». Nuovi applausi e risate.
C’è tempo anche per i fantasmi. “Come stai”, la canta pensando al padre, al “babbo” Bruno Brunori. E lo dice, con quella franchezza tenera di chi non ha paura del lutto né del pubblico. «Qui in molti credo lo ricordino». Poi si diverte con “Italian Dandy” e “Il costume da torero”, l’autoironia come argine alla disperazione: «La realtà è una merda, ma non finisce qua».
Si torna a ridere con “Pomeriggi catastrofici” e il polpettone di zia Giulia buttato dal finestrino sull’A2 sempre da papà Bruno: un piccolo romanzo meridionale. Ma c’è anche spazio per le macerie del cuore. “Un errore di distrazione” è un sussurro devastante. “Per due che come noi” viene ripresa da centinaia di cellulari. Il cielo sopra Cirella è uno schermo tremolante.
Poi arriva “Lamezia Milano”, e proprio in quell’istante dalle prime file si rivede la bandiera palestinese, proprio mentre Brunori canta «con il terrore di una guerra santa e l’Occidente chiuso in una banca».
“Capita così” Dario la suona con la chitarra elettrica. Tutti ascoltano con l’intenzione di non volersi perdere nulla. Nessuno disturba. È una celebrazione muta. Spunta anche qualche volto noto tra la folla. Il procuratore Facciolla, ad esempio. Ma la vera presenza che conta è quella dei volti che si commuovono, che si riconoscono in quei testi pieni di vita sofferta, di dolori rimasticati. È gente che sa cosa vuol dire davvero perdere un treno, una speranza, un padre o una madre. E trovare, per caso, una canzone che ti capisce.
“Fin’ara luna” è la sua prima in dialetto. Racconta la morte, la vedovanza, l’abbandono. Nessun effetto speciale. Solo voce e dolore.


Poi “Per non perdere noi” e “Kurt Cobain”, che hanno il compito di scorticare il cuore ai rockettari anni 90 più nostalgici e ai romantici senza preavviso. E infine “Don Abbondio”, che è un ritorno alla rabbia politica, calabrese, quella vera, mai urlata ma precisa: «Nello strazio del mio mare violentato, dello stato delle cose che ormai è dato per scontato. Nella farsa tragicomica di una tratta autostradale. Nelle morti per errore sopra un letto d’ospedale…Tra le sedie e le poltrone di un consiglio comunale, tra le mani che si allisciano e un seggio elettorale».
Brunori, diventato noto al grande pubblico nazional-popolare di Sanremo e Domenica In come cantautore dell’amore, non è solo quello. C’è una parte di lui – tagliente, dolente, lucida – che sa cantare anche il disincanto. È un cantautore impegnato, sagace, elegantemente politico, capace di tirar fuori pezzi che raccontano e sbeffeggiano amaramente la società a cui ammicca la destra di potere. E questo concerto, casalingo ma maledettamente intenso, ne è stata la prova. Ironico, leggero e pensante come pochi nel panorama musicale italiano attuale.
Sul palco, oltre a Brunori, una band di musicisti con la m maiuscola. A cominciare proprio da Della Rossa, poi Stefano Amato (basso, violoncello), Simona Marrazzo (voce e compagna di vita di Brunori), Mirko Onofrio (sax, vibrafono), Max Palermo (batteria), Luigi Paese (tromba), Gianluca Bennardo (trombone), l’unica non calabrese Lucia Sagretti (violino, theremin). Nessuno si prende la scena, ma tutti la tengono in piedi.
La “pantomima” finale è ormai rito: «Questa è l’ultima canzone, ora io esco e voi dite: “Fuori fuori!”», annuncia con finta serietà. Ovviamente non è l’ultima. C’è ancora “Canzone contro la paura”, che ormai è diventata una preghiera laica. Poi “Guardia ‘82”, solo lui e il pubblico, e “La verità”, un inno generazionale.
Chiude con “L’albero delle noci”, dedicata alla figlia Fiammetta. «A Sanremo sono arrivato terzo ma dovevo vincere. Per la rinascita della Calabria – urla con la solita ironia -. Però se avessi vinto, avrei fatto ricorso al Tar, ché noi per natura non possiamo vincere».
La cantano tutti, con orgoglio calabro, a squarciagola soprattutto quando arrivano i versi più celebri: «Sono cresciuto in una terra crudele dove la neve si mescola al miele».
Poi, silenzio. Luci basse.
Brunori si avvicina al bordo del palco, raccoglie la bandiera della Palestina rimasta lì per tutto il concerto. La solleva. La sventola. Non c’è enfasi, né retorica. Solo una posizione, chiara, attesa da molti. Un gesto che pesa più di mille parole.
E mentre la notte di Cirella ricomincia a respirare da sola, mentre si scende con paziente lentezza verso la parte bassa del paese, resta nell’aria la sensazione che questa – tra i ruderi e il mare, tra le vertebre rotte e i cuori gonfi – non sia stata solo una tappa del tour. È stata una nuova dichiarazione d’amore. E un promemoria: che la verità, quando la riconosci, fa male. Ma ti salva. (f.veltri@corrierecal.it)

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