Kevin Costner e il ferragosto in Calabria
di Francesco Bevilacqua

Lo incrocio sulla strada accanto all’istituto scolastico, mentre transito per andare al mare. Sono le otto di ferragosto. Cavalca il suo pick-up azzurro con l’aria del Kevin Costner della serie televisiva Yellowstone. Mezza età, occhiali scuri, t-shirt nera attillata, testa scotennata, il braccio sinistro fuori dal finestrino, la mano penzoloni, fra le dita un sigaro fumante. A fianco la moglie. L’immagino stanca per aver sfaccendato tutto il giorno precedente a preparare il pranzo. Il cassone del mezzo è strapieno di vettovaglie e attrezzi. Seguono le auto ordinarie con dento il resto della truppa: sul portabagagli tavoli con i piedi rivolti al cielo e in mezzo le sedie. Sull’ultima auto noto una strana sedia solitaria, sistemata per bene, come si trattasse di un trono reale. Il convoglio si dirige baldanzoso verso la montagna alle spalle della città.
Dopo l’incontro, proseguo verso il mare. La strada è sgombra. Lascio l’auto al parcheggio e raggiungo la spiaggia ancora deserta, per la mia nuotata mattutina. Poco a largo osservo la montagna alle spalle del golfo. Dietro i pini che punteggiano il crinale ci sono le aree pic-nic che saranno prese d’assalto dal Kevin Costner de noantri e dai suoi simili. Da una di queste, in Sila, un amico, ieri, mi ha mandato la foto di una striscia di carta igienica poggiata su un tavolo trattenuta da due pietre, con su scritto testualmente: “tavolo occhupato 15 agosto”.
Immagino Kevin che nel frattempo ha raggiunto la sua postazione, presidiata dai figli sin dalla sera prima: l’hanno delimitata con del nastro di plastica come fosse un cantiere; hanno dormito in tenda, per evitare appropriazioni indebite o contestazioni. Kevin e i suoi vuotano nel bosco l’intero carico. Sembra una compagnia militare che prepara una moderna trincea da cui far scattare l’attacco decisivo alla natura sfacciatamente libera. Lo stereo dell’auto comincia a gracchiare i tormentoni estivi. I ragazzi assonnati sprofondano nelle sdraio intenti a postare foto di tutto quel verde popolato da animaletti selvatici indecentemente nudi e crudi.
Kevin imbraccia la motosega come fosse un fucile a pompa, strattona il laccio di accensione e taglia a ciocchi il primo albero secco (quello vivo non brucerebbe mai) a portata di mano. Il nonno rifinisce tutto con l’accetta, la sicurezza del veterano di guerra. La moglie prepara la tavola, sbuffando per l’aerosol di carburante che aleggia sul campo. Qualcuno ha già allestito lo spazio per il fuoco. In breve le fiamme guizzano alte, eccitate dalla diavolina. È il turno dello zio aspirante chef, che ssbatacchia sulla griglia la carne sanguinolenta. A fianco una sequela di birre ghiacciate che gli rischiareranno la mente per ottenere una cottura perfetta.
Inizia l’assalto. Prosegue per ore. Superfluo elencare le portate. Si mastica con calma, si assapora, si deglutisce. Lo stomaco accumula cibi in quantità inenarrabili. Vietato qualunque sforzo fisico superfluo: tutto deve essere assimilato, sino all’ultima molecola, per soddisfare la fame ancestrale tramandata dagli avi. Il vino scorre a fiumi. Antipasti, primi, secondi, frutta, dolci e l’immancabile cocomero tenuto al fresco sotto l’acqua della fontana. Gli stomaci paiono pozzi senza fondo. Uno come me, che ha sempre sofferto di gastrite e colon irritabile, stramazzerebbe al suolo in stato di coma. Dovrebbe portarselo via l’ambulanza per sottoporlo come minimo ad una lavanda gastrica.
Kevin guarda la scena con la pancia che sembra sul punto di esplodere. Al posto del cappellone da cow-boy ha la paglietta comperata alla fiera. In quel momento l’ultimo attrezzo un po’ naif viene scaricato e poggiato ad un pino, in un luogo riservato non lontano dall’accampamento. E’ una vecchia sedia di paglia (il trono di cui sopra), con la seduta sfondata e foderata di nastro adesivo da pacchi. Uno ad uno i deretani di uomini e donne si avvicendano sul cesso portatile calabro (così lo chiamai quando lo ritrassi, incredulo, il 16 di agosto di un anno imprecisato a Macchia di Pietro, in Sila), per dare spazio ad altro cibo.

Ma ecco che il cielo si oscura e improvviso si abbatte sul campo di battaglia un temporale portentoso: grandine, tuoni, fulmini. Una sorta di nemesi per Kevin e i suoi sodali, che si ritirano disordinatamente. Lasciano cocomeri azzannati, sale, olio, cibarie, coperte … e il cesso portatile nobilmente decorato. Erano venuti qui, di ferragosto, per soggiogare la natura e dalla stessa vengono ora scacciati senza riguardo. Guidano mesti e avvinazzati verso casa. Quando vi giungono, gli anziani rimasti al palo domandano ai reduci: “come è andata”. E loro: “siamo salvi grazie a Dio”. Sul fornello della cucina intanto gorgoglia il brodo di carne che, alla sera, servirà a depurare l’apparato digerente degli eroi di Yellowstone in salsa calabra.
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