L’avventurosa storia di Pasquale Cavallaro
Mezzo secolo dopo, Città del Sole ripubblica il saggio di Ilario Ammendolia

“La Repubblica rossa di Caulonia” (Città del Sole, 2025), rivive nel saggio di Ilario Ammendolia che per la terza volta ripubblica la storia di Pasquale Cavallaro, dando dignità a un pezzo importante e purtroppo ancora ignorato della storia italiana.
La prima pubblicazione risale al 1975 con “La Repubblica rossa di Caulonia – tra brigantaggio e rivoluzione” (Casa del libro – Reggio Calabria), firmato con Nicola Frammartino. La seconda volta è stato nel 2019 con “La ’ndrangheta come alibi” – Dal 1945 a oggi Prefazione di Mimmo Gangemi Intervista a Mimmo Lucano” (Città del Sole Edizioni Reggio Calabria).
Adesso Ammendolia e l’editore Franco Arcidiaco fanno bene a riproporre questa pagina di storia che spiega molte cose della Calabria del secolo scorso.
In tutto questo arco di tempo l’Autore ha consolidato la sua ispirazione garantista vivendo e soffrendo nella Locride che espone la sua cruda realtà.
Come diceva Leonardo Sciascia: «La mafia si combatte non con la tensione delle sirene, dei cortei e della terribilità. La mafia si combatte col diritto». Ammendolia, nel suo secondo libro, parte da Caulonia per arrivare a Riace, il paese di Mimmo Lucano che dista pochi chilometri.
Ammendolia allora ne declinò la genesi: «Questo “lavoro”, appena sei mesi fa, non esisteva – se non in maniera confusa – neanche nella mia testa. Ha preso forma nel momento in cui sono stati resi pubblici alcuni documenti relativi alla “Repubblica di Caulonia” e mentre prendeva corpo l’inchiesta su Riace che ha fatto scattare gli arresti del sindaco Mimmo Lucano. “Repubblica rossa di Caulonia” e “Riace” sono i punti estremi di partenza e di arrivo di un viaggio lungo tanti anni fa. Tra i due punti non c’è il vuoto ma la storia della Calabria che è storia d’un popolo sconfitto piuttosto che una vicenda criminale come alcuni vorrebbero far credere. Una Regione “vittima” di un unico disegno repressivo che ha utilizzato la “legalità” come arma verso i più deboli e la ’ndrangheta come alibi per la progressiva colonizzazione e criminalizzazione del popolo calabrese».
Ammendolia produsse nuovi documenti che si riferivano al contesto storico che accompagnò l’arrivo sulla scena pubblica di Pasquale Cavallaro, protagonista principale della vicenda rivoluzionaria.
Ma chi fu veramente Cavallaro? L’interrogativo non è banale perché egli ebbe tante definizioni. Ribelle, romantico, barricadiero, rivoluzionario, utopista, idealista, eroe, comunista, avventuriero. Persino ‘ndranghetista; ma anche Don Chisciotte, Robin Hood, Robinson Crusoe, ecc ecc. Nel maggio del 1968 il patriarca rilasciò un‘intervista al giornalista e scrittore Sharo Gambino, il quale fissò la lunga conversazione su cinque nastri di un registratore Geloso che gli aveva prestato un amico. Un colloquio esclusivo e inoppugnabile. Una conversazione pregnante, una sorta di biografia orale. L’unica intervista organica rilasciata dal rivoluzionario a un comunicatore. I due si parlarono con il voi, la modalità calabrese per eccellenza. Gambino pubblicò lo scoop in cinque puntate sul periodico “Calabria oggi” diretto da Pasquino Crupi.
«Ricordo l’emozione che mi prese quando – annotò Gambino -, nel 1962, ricevetti la prima lettera di Pasquale Cavallaro, il quale, nel ringraziarmi di una recensione ad un suo libro di poesie dialettali (“Lu comizio di li lupi”), mi manifestava stima e simpatia. Emozione perché Cavallaro, divenuto un personaggio storico, io me lo portavo dentro fin da bambino, da quando, vale a dire, ne avevo inteso parlare (lo scrissi in “Fischia il sasso”) da un maestro di scuola su compaesano, il quale, conversando con mio padre, menava vanto di avergli dato uno schiaffo. Così, ai tempi della “Repubblica”, Pasquale Cavallaro era già per me familiare, anche se, questa volta, mi faceva paura perché era comunista e perché voleva portare il comunismo in Calabria e poi in tutto il Meridione. Avevo quasi vent’anni, tutti vissuti sotto il fascismo ed ero imbottito di propaganda anticomunista. Perciò respirai sollevato, allorché dalla radio appresi che i moti di Caulonia erano stai soffocati grazie all’intervento dei carabinieri armati e che Cavallaro era stato arrestato. Passarono degli anni. Una quindicina. Nel frattempo io avevo tradito la pittura, con la quale avevo amoreggiato fin dall’età di sei anni, per innamorami della carta stampata. Scrivevo e scrivevo a fiumara, interessandomi di tutto, anche di critica letteraria; ed il mio nome era assai frequente sulle pagine dei cinque o sei quotidiani ai quali collaboravo. Frattanto avevo anche riveduto, sia pure con grande travaglio, le mie idee politiche e mi ero trovato uomo di sinistra. Cavallaro e tutti i comunisti e tutti i socialisti non mi facevano più paura, ma li sentivo fratelli nella speranza di un uomo migliore, dove non ci sarebbero stati più sfruttati e non ci sarebbe stata più gente abbandonata come quella di Cassari, dove ero andato a insegnare e a dirigere un centro di cultura popolare e in mezzo alla quale avevo maturato la mia crisi politica. Perciò scrissi la recensione che aveva entusiasmato Cavallaro; il quale, da quella volta, mi divenne grande amico. Quell’amicizia fu suggellata da una visita che io feci a Cavallaro in un nebbioso pomeriggio del marzo 1964, ventesimo anniversario dei moti di cui egli era stato il protagonista maggiore e il grande ispiratore. Ci intrattenemmo per un’oretta, in quella sua stanza disadorna, povera, ricca solo di libri. E quando tornai via, avevo il rimpianto di aver perduto l’occasione di un lungo discorso sulla “Repubblica”. Un discorso che avrei senz’altro fatto se avessi avuto un registratore. Si sarebbe rinnovata la possibilità di un nuovo incontro con Cavallaro? Rimuginavo questo mio cruccio mentre, a piedi, arrancavo verso Caulonia Marina, dove, più tardi, sarebbe venuto l’amico con cui, sulla sua auto, sarei rientrato a casa. A quei tempi non era facile arrivare a Caulonia, poiché non avevo l’auto e per muovermi approfittavo di fortunate circostanze, che erano davvero rare. Ma quando, finalmente, risparmiando, misi le mani sul volante di una “500” mia… allora non ci fu strada della Calabria che non mi vedesse passare veloce e avido di conoscenze calabresi. E tornai a Caulonia. Era una stupenda giornata di fine maggio 1968 e con me c’era l’amico prof. Peppe Loiacono col suo nuovo registratore e cinque o sei nastri magnetici che a sera ci saremmo riportati indietro trasformati in un documento storico. Cavallaro parlò per ore e ore, calmo, senza bisogno di appunti (aveva la lingua sciolta e pensiero lucido così come il ricordo), a braccio, come si dice in gergo giornalistico. Si interrompeva, però, di tanto in tanto per riposarsi (ormai sfiorava i 75 anni) e riprendere fiato».

Gli ultimi anni della sua vita Pasquale Cavallaro li passò all’ospedale geriatrico di Gerace che era ubicato in un convento del 1347 dedicato a Sant’Anna. Oggi quel presidio ospedaliero non c’è più, i resti del monastero sì. Negli anni ’90 l’allora Usl di Locri costruì un edificio, giù nel borgo, che però non è mai entrato in funzione. Una delle tante cattedrali nel deserto.
Le ultime confidenze del rivoluzionario furono raccolte dal primario geriatra, Salvatore Gemelli (solo omonimia con il sottoscritto), letterato e umanista. Era 1972. E il medico di Anoia tratteggiò la personalità di alcuni suoi pazienti nel saggio “Così muoiono i vecchi” (Effemme, 1977). Un passo del libro recita: «Fino all’ultimo dei suoi giorni, nei suoi ripetuti ricoveri, il professor Cavallaro, mi parlò di paure, di appostamenti, di vendette. Sul suo viso, nel suo corpo, allora, la malattia appariva come un fatto secondario, un epifenomeno di più atroce lotta interiore. Cercai “i Canti” di Pasquale Cavallaro, pubblicati nel 1920; la loro lettura completò l’inquadramento della figura di quest’uomo straordinario, e conferì un carattere di ancestralità e una coloritura profetica al suo dolore». Il primario colse nel segno.
Il 1973, all’età di 82 anni, Cavallaro si spense portandosi dietro qualche segreto che neppure il confessore-geriatra volle svelare giacché anche lui da lì a poco avrebbe trovato prematuramente la morte a causa di un male incurabile.
La vita di Pasquale Cavallaro è stata un romanzo. Di un uomo che si auto-definì un “rivoluzionario nato”. Per la penna di un Hugo o di un Dumas.
Venne al mondo il 21 aprile 1891 da una famiglia un poco agiata di “massari” residente in un luogo sperduto della Calabria, una zona impervia che fiancheggia le sponde del fiume Allaro. San Nicola di Caulonia, sulla costa jonica reggina. La Locride, per intenderci. Cominciò a studiare nel seminario di Gerace dove fece amicizia con Corrado Alvaro e con Gennaro Amato. Quest’ultimo, fattosi prete, divenne parroco di Focà di Caulonia. La sua uccisione fu attribuita dai carabinieri a Ercole Cavallaro, mentre il giudice istruttore indicò nel padre Pasquale il presunto mandante del delitto, provocando la scintilla dei moti cauloniesi. Dopo Gerace Cavallaro passò, a 13 anni, nel seminario di Catanzaro per completare la formazione. E nel capoluogo Cavallaro e Alvaro ebbero modo di conoscersi meglio. A 18 si recò in America; un passaggio importante perché le poche parole di inglese imparate nel suo soggiorno negli States gli servirono per convincere gli Alleati, che pure lo sapevano comunista, a eleggerlo, nel 1944, prima commissario e poi sindaco di Caulonia.
Internazionalista ma anche patriota. Nel 1918 partì volontario sul fronte nella Prima guerra mondiale dopo essere fuggito dalla comoda infermeria dell’ospedale militare di Bari, dove era ricoverato, per ritornare in prima linea. Lo Stato lo nominerà Cavaliere di Vittorio Veneto solo in punto di morte. Ritornato in paese prese l’abilitazione diventando maestro elementare; ma il fascismo lo spedì, dal ’33 al ’37, al confino di polizia, prima a Ustica (dove prese i primi contatti con l’antifascismo italiano) e poi a Favignana. Perso l’insegnamento pubblico si dedicò a quello privato e, contemporaneamente, si diede da fare organizzando clandestinamente il Partito comunista locale. Divenne così il punto di riferimento di tutto il comprensorio.
Pasquale Cavallaro ebbe cinque figli. Libero, che diventerà il suo alter ego rivoluzionario, Ercole, il cui arresto da parte dei carabinieri scatenerà la rivolta del 5 marzo del ‘45, Vera, anche lei maestra elementare, Leone, morto dopo essersi arruolato nella Legione Straniera, e Alessandro, diventato uno stimato professore di filosofia. I nomi di battesimo dei figli sono tutto un programma. La colonna mnemonica della sua idealità. Il suo orizzonte immaginifico. I nomi dati ai figli raccontano la storia dell’uomo.
Gli ultimi anni di guerra, nell’Italia divisa in due, vedono Pasquale Cavallaro impegnato a organizzare le sezioni del Pci e del Psi ela Cameradel Lavoro di Caulonia. Un capo-popolo riconosciuto dalle masse popolari e temuto dalle classi benestanti che si erano subito riciclate da fasciste in democratiche nello spazio di 24 ore. In quel periodo egli organizza, nei paesi limitrofi, una fitta rete ingrossando un esercito di affamati che aspirano a liberarsi della catena della povertà. In un contesto di confusione, di utopie e di rivoluzioni a portata di mano avviene l’arresto del figlio Ercole.
È la scintilla che provoca lo scoppio. Ci fu una sollevazione generale nel circondario, uomini che scesero dai monti, risalirono le valli, in armi, per radunarsi intorno all’abitato di Caulonia; secondo alcuni fu lo sbocco naturale di un’organizzazione meticolosa già preparata (le armi erano state fornite dagli Alleati per combattere i nazi-fascisti) nei minimi dettagli, per altri (come racconta il figlio Alessandro) fu una sollevazione spontanea. Pasquale Cavallaro, delegò la parte militare al figlio Libero, mentre per sé tenne il compito di evitare che la rivoluzione debordasse oltre il dovuto. Ma la rivolta dei contadini e dei braccianti gli sfuggì di mano. Accaddero episodi di violenza in un clima sovreccitato. Un paio di questi episodi si trovano nell’intervista di Gambino.
Il primo giorno “repubblicano” il sindaco Cavallaro nominò un Tribunale del Popolo, composto da trecento cittadini, per redimere le ingiustizie che sarebbero state perpetrate dai “signurini” nel corso del tempo. Ebbene, mentre si processava lo spione di turno, lo stesso venne punito ricevendo in bocca lo sputo dei trecento giurati. Un gesto ripugnante. In un’altra occasione i rivoluzionari fecero fare una “corsarella” all’ingegnere Ilario Franco, «che aveva la pretesa di essere un superuomo», in mutande sotto la neve.
Ma il fatto più grave fu l’uccisione di un prete, don Gennaro Amato, dovuta, a parere di Cavallaro, a una tragica fatalità. Lo storico Paolo Spriano nella “Storia del Pci” (Einaudi) neppure cita l’episodio della morte del sacerdote che è fondamentale per capire la dinamica degli eventi che avrebbero poi portato alla sollevazione popolare. Al quinto giorno il rivoluzionario Cavallaro si arrese. Liberato il figlio Ercole per placare le acque vennero a chiedere la sua testa i socialisti Andiloro e Priolo, rispettivamente sindaco e prefetto di Reggio Calabria. Cavallaro accettò la resa ma chiese e ottenne che il suo successore fosse l’avvocato Musolino, segretario provinciale del Pci.
I fatti di Caulonia diventarono un caso nazionale. Il Parlamento nominò una commissione d’inchiesta che fu affidata agli onorevoli Gava (Dc) e Molinelli (Pci). I giornali ne parlarono per mesi. I rivoltosi (365) furono processati in primo grado a Locri, il 23/6/1947, in un ex pastificio trasformato per l’occasione in aula giudiziaria. Il processo fu poi trasferito a Cosenza per legittima suspicione (nel collegio di difesa ci furono gli avvocati Pietro Mancini e Fausto Gullo).
La sentenza fu di amnistia per i trecento imputati mentre Pasquale Cavallaro, ritenuto il mandante del delitto Amato (i due esecutori materiali riceveranno una punizione severa), venne condannato a nove anni reclusione ridotti a sei, nel 1958, dalla Corte d’Appello di Catanzaro. Nel carcere di Catanzaro Cavallaro incontrò Ciccio Caruso, il dirigente del Pci di Crotone che era stato arrestato e prosciolto perché accusato di aver fomentato i contadini di Isola Capo Rizzuto. L’idea iniziale di Cavallaro non era stata tanto bellicosa. Per tranquillizzare i moderati egli lanciò, il 25 ottobre 1943, la “defascistizzazione pacifica”, un proclama – ricordò egli stesso nelle memorie – «letto dall’avvocato Aldo Casalinuovo al tribunale di Catanzaro», e che aveva questo incipit: «Operai che non siete servi / contadini che non siete schiavi / benpensanti che non volete essere / né servi, né mercanti di schiavi / in piedi!».
Uscito dal carcere Pasquale Cavallaro rimase povero e solo, rifugiandosi a Roma nella casa del figlio Ercole. Lì ricevette la visita di Pietro Secchia, accolto, e di Giancarlo Pajetta, respinto. Il partito, a detta del figlio Alessandro, gli offrì un posto di impiegato a Botteghe Oscure che lui rifiutò sdegnosamente perché il tradimento non poteva avere un prezzo riparatore. Chiese al partito di poter vivere con i proventi delle sue pubblicazioni. Da Botteghe Oscure gli risposero che le sue opere non avevano valore letterario.
Doppiezza, crudezza e cinismo per un rivoluzionario scaricato dalla burocrazia comunista.
Il crepuscolo si consumò nel reparto di geriatria di Gerace dove avvennero gli intensi colloqui con il primario. Il depositario della sua avventurosa vita.