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l’intervista del corriere

Nello Parisi: «Guarascio? Serve unità. Non mi ha mai voluto, ma Cosenza resta il mio sogno»

L’ex capitano rossoblù oggi a Malta: «Diceva che ero un problema, ma tornerei anche con lui. Padre Fedele un trascinatore. Catanzaro e Crotone faranno grandi cose»

Pubblicato il: 28/08/2025 – 8:00
di Francesco Veltri
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Nello Parisi: «Guarascio? Serve unità. Non mi ha mai voluto, ma Cosenza resta il mio sogno»

COSENZA Una fascia al braccio, più di 200 presenze con la maglia del Cosenza, un temperamento che in campo era tempesta e cuore. Oggi Aniello “Nello” Parisi è lontano da quella curva che l’ha esaltato, da quella città che l’ha fatto sentire figlio: allena nello scenario insolito della Premier League maltese, alla guida dello Zabbar St. Patrick, ma con gli occhi e l’anima ancora rivolti alla “sua” Cosenza, nonostante sia nato a San Giuseppe Vesuviano.
Parisi ha calcato i campi del sud con orgoglio e fatica: Avellino, Foggia, Cosenza, Crotone, Vigor Lamezia. Ha vissuto la Calabria del pallone da protagonista, e poi ha cominciato a viverla da allenatore: dalle giovanili del Rende alla Primavera e alla prima squadra del Crotone, passando per le under di Roma e Torino. Fino all’estero: Lussemburgo, Belgio, Malta.
Una vita spesa per il calcio. Oggi racconta il suo percorso con lucidità e passione, tra progetti, rimpianti, sogni e una certezza: «Tornare a Cosenza? Sì, sarebbe bello. Anche con Guarascio…perché no?».

Come nasce la tua avventura a Malta?

«Ci sono arrivato per caso. Avevo appena lasciato il Sint-Truiden, in Belgio, dove ero vice allenatore in Jupiler Pro League, un’esperienza bellissima e di alto livello. Il mio allenatore, un amico, ha rescisso il contratto, e così ho lasciato anch’io. Per la prima volta nella mia vita, a ottobre ero a casa. Avevano già il mio curriculum, e dopo pochi giorni lo Zabbar St. Patrick mi ha chiamato per propormi la panchina. Ultimi in classifica, neo-promossi, con quattro punti: una sfida complicata. Ma su impulso di Stefano De Angelis che allena lì da anni, mi sono fidato del lavoro, e abbiamo fatto un piccolo miracolo».

Sì, perché siete riusciti a salvarvi e tu sei stato anche premiato.

«Quando sono arrivato abbiamo perso le prime cinque partite, la squadra era a terra, tatticamente fragile e psicologicamente scarica. Ma con il tempo siamo riusciti a risalire: abbiamo vinto tutte le partite dei playout e ci siamo salvati. A dicembre sono stato eletto miglior allenatore del mese. Dopo la salvezza speravo in qualche possibilità in Italia, ma niente colloqui. I direttori hanno smesso di cercare gli allenatori emergenti. Così ho deciso di restare. Il progetto mi piace: abbiamo preso dieci giovani promesse maltesi, e il c.t. della Nazionale li segue con attenzione».

Che tipo di campionato è la Premier League maltese?

«Un campionato competitivo, non come quelli a cui siamo abituati in Italia, ricco di insidie, ma ovviamente con meno qualità. Ci sono tanti allenatori italiani: ho già citato Stefano De Angelis, anche lui ex Cosenza, come Modica che guida la squadra più blasonata, l’Ħamrun Spartans. Il calcio a Malta è in crescita e, umanamente, vivere questa esperienza è arricchente».

C’è anche la tua famiglia a Malta?

«Siamo solo io e mia moglie. Le nostre figlie sono grandi, cosentine pure loro, una lavora e l’altra studia a Cosenza. Ma questa esperienza ci ha cambiati. Allenare una squadra con quattro brasiliani, tre argentini, due serbi, tre portoghesi, africani e maltesi ti obbliga a gestire culture, sensibilità e approcci diversi. Parlare con tutti in inglese, organizzare, motivare, mediare, non è facile. Ti fa crescere come uomo, ancora più che come tecnico».

E il tuo credo calcistico?

«Esattamente l’opposto di ciò che facevo in campo (ride, ndr). Da calciatore ero uno che difendeva, da allenatore invece odio difendere e basta. Amo l’intensità, la verticalità, il calcio offensivo. La mia squadra deve creare occasioni. E ogni tanto, quando rivedo me stesso in panchina, penso: “Ma davvero giocavo così basso?”».

Calciatori perlopiù stranieri?

«Sì, abbiamo solo un italiano, Mario Fontanella, un napoletano che non ha mai giocato in Italia. È diventato un idolo qui, una sorta di maltese d’adozione. Il resto del gruppo è molto internazionale. L’inglese? L’ho iniziato a studiare a 50 anni, ogni giorno imparo qualcosa, anche se nelle interviste rispondo ancora in italiano (sorride, ndr)».

Parisi nel giorno delle 200 presenze con la maglia del Cosenza (foto Pescatore-Tucci)

Impossibile non chiederti del Cosenza. Che idea ti sei fatto del momento attuale?

«C’è una frattura importante tra società e tifosi. Da un lato c’è la visione manageriale del presidente Guarascio, dall’altro la voglia della città di sentirsi rappresentata. Io credo che entrambe le parti debbano fare un passo l’una verso l’altra. Il calcio oggi richiede organizzazione e investimenti, ma senza la spinta dei tifosi, a Cosenza non si va da nessuna parte».

Hai avuto un rapporto complesso con Guarascio.

«Diciamo la verità: lui non mi vuole nel Cosenza. Mi ha mandato via anni fa perché pensava che remassi contro. Ho fatto qualche intervista scomoda, forse, da giovane ero impulsivo. Ma non ho mai detto bugie. Mi sono seduto al suo tavolo sei-sette volte, ma ha sempre detto no. Però oggi ho 52 anni, sono cambiato, sono cresciuto. E dico: Guarascio ha fatto anche cose importanti, ha tenuto il Cosenza in B quando altri lo davano per spacciato».

Ora il rapporto con la piazza è ai minimi storici. Tanti imprenditori si sono interessati alla società ma lui non vuole cedere.

«Sì, soprattutto di recente. Ma spesso si avvicinano quando la squadra è in difficoltà, sperando in un affare. Guarascio sta sprecando un’occasione unica, deve capire che l’energia del “Marulla” è la vera forza di questa squadra. Io ho visto calciatori comuni diventare fuoriclasse con l’entusiasmo della piazza: Mendil, Zaniolo, Savoldi… sembravano Maradona, poi altrove difficilmente si sono ripetuti. Cosenza ti fa sentire un calciatore vero, ti carica come poche realtà in Italia. Nei miei anni, con squadre normalissime abbiamo raggiunto grandi traguardi proprio grazie alla passione dei tifosi. Il presidente dovrebbe facilitare questo processo, non ostacolarlo. Amichevoli in provincia, prezzi accessibili, apertura verso le iniziative benefiche e tanto altro. Oggi c’è una distanza troppo grande».

Che ricordo hai di Padre Fedele?

«Era un trascinatore. Ci univa, ci caricava, ci faceva sentire importanti. Ricordo le riunioni che organizzava insieme alla squadra e ai tifosi, finivano sempre con lui che cantava “Maracanà”, la sua canzone. È stata una perdita enorme, e oggi si sente la sua mancanza. Servirebbe qualcuno con lo stesso spirito: per unire e non dividere».

Il Crotone è stato sconfitto all’esordio.

«Lunedì hanno perso col Benevento, ma la squadra è forte. La famiglia Vrenna ha costruito una società matura, mister Longo lavora bene, e la città ama il bel calcio. L’anno scorso sono stati protagonisti. Ai playoff può succedere di tutto, ma secondo me anche quest’anno diranno la loro».

E il Catanzaro dove può arrivare?

«Dopo due semifinali playoff è il momento di puntare in alto. Iemmello e il presidente Noto lo hanno detto. Serve qualche innesto esperto, gente che ha già vinto la B. Ma la struttura è solida, le idee sono chiare, e il progetto è credibile».

E se dopo Malta arrivasse Cosenza?

«Certo, sarebbe bello. Io sono maturato e se un giorno dovesse arrivare il momento giusto, potrei essere io il punto d’unione tra club e città. Ma oggi a Cosenza ci sono persone competenti: Buscè ha dimostrato di essere un ottimo allenatore. Ho visto giocare il suo Cosenza a Monopoli, una squadra con idee, intensità e qualità. Anche il direttore Lupo e il suo collaboratore Roma, che è ormai un cosentino d’adozione come me, a mio avviso possono fare un buon lavoro».

Sei ottimista: politica, tifoseria e buona parte della stampa la pensano diversamente. L’ultima decisione di chiudere le curve, poi, ha creato un’ulteriore spaccatura.

«Lo so, ma bisogna ricostruire il rapporto con la piazza in tutti i modi. A Cosenza il tifoso vuole vivere la squadra, sentirla sua. Vuole tornare al “Marulla”, sentire il calore, l’orgoglio, la passione. Quando ci sono questi elementi, anche una rosa normale può diventare speciale. Lo dico per esperienza. Ecco perché serve aprire le porte, coinvolgere la città. Perché Cosenza, quando si accende, può diventare la squadra più calda d’Italia». (f.veltri@corrierecal.it)

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