Raccontare le mafie, la sfida nell’era digitale. Lucarelli: «Dalla paura lo scatto verso l’impegno civile»
L’analisi del giornalista e scrittore ai nostri microfoni: «Per essere efficaci le storie devono adattarsi ai linguaggi della contemporaneità»

ROMA Una lotta che non passa solo attraverso l’azione giudiziaria, ma che si fa sempre più forte grazie alla conoscenza di fenomeni che altrimenti agirebbero indisturbati sottotraccia. È fondamentale domandarsi «come si debbano raccontare oggi le mafie, soprattutto ai più giovani», con la «certezza che farlo sia necessario». Conoscenza e cultura riguardo anche a temi delicati come il contrasto alla criminalità organizzata, alla base dell’analisi di Carlo Lucarelli, espressa ai nostri microfoni. Il giornalista e scrittore è stato uno dei relatori dell’evento di apertura del convegno nazionale di Libera dal titolo “Tracce Libere” a Roma, un evento organizzato per celebrare i trent’anni dalla fondazione dell’associazione e discutere ricerche e contributi sul tema che vede al centro il contrasto alle mafie.
Raccontare il crimine organizzato
Oggi ‘ndrangheta, Cosa nostra, Camorra, Sacra corona unita, con la collaborazione di organizzazioni criminali straniere, hanno ampliato il proprio raggio d’azione, con interessi criminali che toccano ogni ambito della vita economica e affari in tutto il mondo. Cruciale, dunque, il ruolo di chi si trova a dover raccontare un potere che sembra non avere limiti. Ed è qui che Lucarelli mette in luce la complessità del compito, in un’epoca storica in cui i messaggi sono veicolati prevalentemente attraverso i social media. Parlare di criminalità organizzata richiede un approccio rinnovato e mirato nei confronti dei giovani, che oggi hanno accesso a una quantità di informazioni senza precedenti: «Molti giovani sanno moltissime cose che noi, soprattutto ai miei tempi, non sapevamo. Adesso esistono tantissime fonti di informazione, è una contemporaneità di queste fonti che fa in modo che hai la possibilità di saperlo». Il punto cruciale, tuttavia è il “come” si veicola il contenuto. Per essere efficaci le storie devono adattarsi ai linguaggi della contemporaneità: «Bisogna riuscire a raccontarle in un modo che sia quello con cui si ascoltano le storie oggi, quindi veloce ma profondo, multimediale, se vogliamo che vadano a toccare quella piccola corda che faccia suscitare scintille emotive».
Dalla paura all’azione, per arrivare al cambiamento
Lucarelli propone inoltre di mostrare i mafiosi per quello che sono realmente: una componente essenziale è, infatti, lo smantellamento della narrazione mitica che a volte circonda le figure mafiose nel cinema o nella letteratura: «E’ necessario far vedere le persone per come sono, sbagliano, sono meschine e commettono degli errori. Hanno dei problemi. Sono tutte persone con le quali non ci si vorrebbe identificare». Soprattutto se le si racconta commettere reati che hanno segnato vite e intere comunità: se si associano queste figure ad azioni come «l’uccisione di un bambino, come davvero succede», afferma Lucarelli, si innesca il pensiero «”non sarò mai come lui”». Una narrazione, quindi, che faccia trasparire la realtà, per quanto brutale, affinché sia visibile la meschinità e la violenza ingiustificabile dei mafiosi. Un modo per creare un netto distacco emotivo, portando il giovane a rifiutare quel modello di vita. Il racconto deve generare empatia per le vittime e orrore per la criminalità, da qui la necessità di evocare un sentimento di paura che non sia fine a sé stesso, bensì come motore per la reazione e l’impegno civile: «Se ne ho paura allora farò di tutto per cambiare la situazione».
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