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le giovani leve

Raid punitivi e pestaggi per «affermare il potere del clan». I membri della “New generation” a Locri: «Noi siamo uomini di Gomorra»

Nelle motivazioni d’appello la ricostruzioni delle spedizioni punitive. Nel gruppo l’utilizzo di nomi come “La banda della Mito rossa” e soprannomi come “Cardillo”

Pubblicato il: 04/11/2025 – 7:03
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Raid punitivi e pestaggi per «affermare il potere del clan». I membri della “New generation” a Locri: «Noi siamo uomini di Gomorra»

REGGIO CALABRIA Spedizioni punitive, inseguimenti, pestaggi. Si facevano chiamare “Gang Fragapullo”, dal nome del luogo di occultamento della sostanza stupefacente, oppure “La banda della Mito rossa”, auto di uno dei componenti del gruppo messa a disposizione degli associati e con evidente riferimento alla ben più famigerata “banda della Uno bianca”. «Perché noi siamo uomini di Gomorra!! I gomorroidi, i gomorroidi!», viene detto nel corso di una conversazione intercettata. Il riferimento è alla nota serie televisiva “Gomorra”, da cui addirittura uno dei componenti del sodalizio aveva preso il soprannome “Cardillo”. 
Le giovani leve dei Cordì, oggetto dell’inchiesta della Dda di Reggio Calabria “New Generation” si muovevano secondo uno schema ben preciso e con azioni coordinate, secondo quanto emerge dalle motivazioni della sentenza emessa dalla Corte d’appello. Per i giudici, «la conferma che gli imputati erano costituiti in associazione si ricavava dal fatto che essi stessi, in diverse circostanze, si consideravano come un gruppo a cui davano un nome». 
L’operazione scattata nel luglio 2022 aveva portato all’arresto di 29 persone accusate, a vario titolo, di associazione per delinquere di stampo mafioso, produzione, traffico e detenzione illeciti di sostanza stupefacente, detenzione di armi e munizioni, danneggiamento, estorsione pluriaggravata, traffico e spaccio di banconote false. Le indagini evidenziarono che lo scopo del clan era duplice: controllare, attraverso il giovane gruppo, le attività svolte sul proprio territorio e, allo stesso formare giovani leve assoggettate all’autorevolezza criminale dei Cordì «da cui poter attingere in futuro per rafforzare l’organigramma specifico della consorteria» tanto che «anche all’esterno il gruppo di ragazzi viene considerato una propaggine della cosca Cordì».

Le azioni violente per «affermare il potere del clan»

Erano pronti a intervenire in modo eclatante, con azioni violente, contro chiunque osasse intaccare il prestigio e la supremazia del clan. Le azioni messe in atto dal gruppo erano proiettate in un’unica direzione: la «chiara affermazione di potere della cosca, non disposta a subire torti di alcun tipo nel territorio di competenza e pronta ad intervenire in maniera eclatante e con reazioni violente di fronte a quegli atti ritenuti lesivi del prestigio e della supremazia del gruppo mafioso di riferimento».
Quanto al profilo della finalità agevolativa del sodalizio mafioso, i giudici scrivono che «va rilevato che tutte le condotte in oggetto sono state poste in essere nell’interesse della cosca Cordì al fine di affermare il predominio della cosca sul territorio e la propria egemonia criminale».
Nelle 250 pagine delle motivazioni si legge inoltre che «tutti gli imputati sono inseriti in un contesto familiare ad alto indice mafioso ed in ogni caso hanno agito in concorso con affiliati alla cosca, come Cordì Riccardo Francesco, della cui caratura criminale erano ben consapevoli, a lui più volte gli imputati si riferivano per connotare di maggiore autorevolezza criminale la propria azione». Il gruppo, secondo quanto emerso, si caratterizzava per la sua capacità di reagire «in maniera unitaria a tutela dei crediti degli associati ed in reazione ad aggressioni provenienti dall’esterno», come nel caso dell’organizzazione di un vero e proprio raid punitivo al fine di costringere un soggetto ad estinguere il debito contratto nei confronti del gruppo, relativo a cessioni di sostanza stupefacente non pagate. Anche in occasione degli arresti che interessavano gli associati, il gruppo agiva nel pieno rispetto del principio del mutuo soccorso. 

Il raid punitivo

Emblematico un caso in cui i componenti del gruppo organizzano una vera e propria spedizione punitiva. Un episodio che si verifica nella notte tra il 22 e il 23 luglio 2020 e che vede protagonisti sei componenti, tra cui Riccardo Francesco Cordì, Antonio Cordì (cl. 2002), Agostino Dieni, Antonio Cordì (cl. 1997), Antonio Cordì (cl. 87) e Vincenzo Temi.
L’obiettivo era una persona ritenuta responsabile di aver sottratto beni per 50mila euro a uno di loro.La dinamica è stata ricostruita grazie alle informazioni fornite dalle persone offese (che in un secondo momento hanno scelto di non sporgere denuncia formale per paura) e al contenuto delle intercettazioni ambientali. I sei – viene ricostruito – fecero irruzione in casa delle vittime, minacciandole e picchiandole, e danneggiando con un bastone il sistema di video sorveglianza. Le vittime furono costrette a seguire il gruppo in un luogo isolato, dove subirono un pestaggio al cospetto di numerosi altri esponenti della cosca. Un’azione che aveva il chiaro intento di recuperare la refurtiva, sostituendosi di fatto ai poteri dell’autorità giudiziaria e sottraendo la chiave dell’autovettura a una delle vittime.
Quanto al profilo dell’uso del metodo mafioso, scrivono i giudici, «le modalità esecutive delle condotte sono sicuramente idonee a evocare, nei confronti dei consociati e delle vittime, la forza intimidatrice tipica dell’agire mafioso, estrinsecatasi con l’intervento di una vasta ed ampia rete criminale, sempre pronta ad adoperarsi nel soddisfacimento delle pretese di ciascuno». La prova dell’utilizzo del metodo mafioso, per i giudici, si ricava dal fatto che le vittime, «consapevoli della caratura mafiosa dei protagonisti dell’aggressione, dopo aver reso ampie dichiarazioni ai Carabinieri intervenuti sul posto, hanno adottato, poi, in sede di sommarie informazioni, un atteggiamento chiaramente reticente, dettato dal timore di ritorsione da parte dei Cordì». (m.r.)

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