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‘Ndrangheta, l’omicidio Vivaldo su volere dei Gallace: l’ordine da Guardavalle e l’appoggio del boss Rispoli

Ricostruito l’agguato avvenuto a Rho nel febbraio di oltre 25 anni fa anche grazie alle dichiarazioni del pentito De Castro. Cinque gli arresti eseguiti

Pubblicato il: 29/11/2025 – 17:56
di Giorgio Curcio
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‘Ndrangheta, l’omicidio Vivaldo su volere dei Gallace: l’ordine da Guardavalle e l’appoggio del boss Rispoli

LAMEZIA TERME Un omicidio rimasto nella memoria e il cui fascicolo ha preso polvere in qualche remoto angolo della Procura di Milano per quasi 26 anni o almeno fino alle dichiarazioni di un collaboratore di giustizia. Ma andiamo con ordine, tornando indietro fino al 23 febbraio del 2000. Il nuovo millennio era iniziato da poco con tante potenziali novità all’orizzonte, eppure qualcosa dal secolo scorso era rimasto: una pratica da sistemare per una delle più potenti famiglie di ‘ndrangheta: i Gallace. Nel mirino Nicola Vivaldo, assassinato un sera d’inverno nei pressi della sua abitazione a Rho, nel Milanese, attraverso una vera e propria esecuzione mafiosa.

Per cinque persone è scattato l’arresto:

Vincenzo Gallace (cl. ’47) già al 41bis per gli omicidi Novella e Vallelunga; Vincenzo Rispoli (cl. ’62) di Cirò Marina; Massimo Rosi (cl. ’68) già coinvolto nell’inchiesta “Hydra”; Stefano Sanfilippo (cl. ’45) di Gela e Stefano Scatolini (cl. ’67). Nomi di certo non nuovi nello scenario criminale.

La scena del crimine

Quella sera la vittima fu rinvenuta dai Carabinieri del Comando Compagnia di Rho la Hyundai Pony con la vittima seduta sul posto lato guida L’autovettura della vittima presentava il finestrino laterale destro infranto e furono trovati, inoltre, 5 bossoli calibro 32 auto, corrispondente al calibro 7.65 mm, di cui quattro all’interno dell’auto. Dalle indagini svolte dal Comando Compagnia dei Carabinieri di Rho, era emerso che Vivaldo fosse implicato in un ingente traffico di cocaina e pertanto inizialmente gli sforzi investigativi furono indirizzati in tal senso. La moglie di Vivaldo, sentita dai militari, inizialmente indirizzò i sospetti su due fratelli di Sant’ Andrea Apostolo dello Jonio che la vittima avrebbe dovuto incontrare. Poi, invece, le dichiarazioni della vedova consentirono di ipotizzare che l’agguato potesse collocarsi, invece, in un contesto maturato all’interno della cosca di ‘ndrangheta dei “Gallace-Novella”

Ucciso perché ritenuto «un confidente»

Nonostante tutto questo tempo, l’indagine di fatto non si è mai fermata e dopo un quarto di secolo ha una prima verità. Ad indirizzare gli inquirenti, le dichiarazioni rese da un collaboratore di giustizia, Emanuele De Castro. Secondo la sua ricostruzione, il movente dell’azione delittuosa sarebbe da ricondurre al ruolo di “confidente” di Nicola Vivaldo mentre l’ordine di compiere l’omicidio arrivava direttamente da Guardavalle e precisamente dai vertici della cosca dei Gallace. «Me lo disse Enzo Rispoli», spiega il pentito ai pm di Milano. «Disse Rispoli a me se volevo partecipare a questa cosa, perché lui non si fidava tanto di Massimo Rosi per commettere questo omicidio, mi disse “fammi la cortesia, vai pure tu e partecipa pure tu a ‘sta cosa”». Vivaldo, sempre secondo il collaboratore, «era vicino al Gallace e a Stefano. Nunzio lo conosceva pure (…) è una persona vicina a loro, però se era affiliata o se era… non le saprei dire…».

L’esecuzione dell’omicidio

Ai pm di Milano De Castro illustra anche i dettagli circa l’omicidio avvenuto quella sera di febbraio del 2000. «(…) 50 centimetri all’incirca, sì. Mi ricordo io ho aperto lo sportello… Rosi mi ha spostato con la mano e subito ha sparato. Parrebbe a bruciapelo, ha messo la mano … quasi a bruciapelo perché si è messo vicino … erano attaccati…». «Ricordo bene che io aprii lo sportello e Rosi mi spostò…». A descrivere la dinamica dell’agguato mortale è stato proprio il pentito. Una ricostruzione che, secondo il gip, trova riscontro nei rilievi effettuati la sera dell’omicidio e nella successiva perizia balistica e autoptica. Il corpo di Vivaldo, infatti, fu ritrovato dentro l’auto con il capo «leggermente inclinato verso il sedile anteriore destro», segno che la vittima fu colpita alla sua sinistra. C’era, invece, un aspetto tecnico emerso dalla perizia balistica che il pentito potrebbe aver chiarito. Si tratta dell’assenza di quello che viene definito un “tipico tatuaggio” sul volto della vittima, determinato dalle polveri da sparo espulse dalla canna dell’arma. Per De Castro, infatti, Rosi avrebbe utilizzato una pistola con silenziatore che, evidentemente, «ha trattenuto i residui di sparo che determinano il tatuaggio stesso, così traendo in inganno i medici legale che hanno eseguito l’esame autoptico». Per queste regioni il gip aveva respinto, a luglio di quest’anno, la prima richiesta d’arresto avanzata dalla Procura di Milano, accogliendola invece dopo l’integrazione dell’attività d’indagine. Inoltre, a De Castro, sono state sottoposte alcune foto estrapolate dai rilievi effettuati il 23 febbraio 2000 a Rho, sulla scena del delitto che ha riconosciuto «senza ombra di dubbio». Quindi, per il gip, quello a carico degli indagati «è un quadro indiziario grave, preciso e concordante» mentre le dichiarazioni rese da Emanuele De Castro, testimone principale e correo per i fatti in disamina, «devono ritenersi una solida fonte di prova», riferendo ai pm di aver preso parte all’omicidio «su preciso incarico di Vincenzo Rispoli».

La vittima e tutti i ruoli dell’agguato mafioso

Gli esecutori materiali dell’omicidio, con specifico riferimento a Massimo Rosi, erano a conoscenza delle abitudini della vittima, in particolare la frequentazione del cosiddetto “circolino”, individuato nell’esercizio commerciale avente denominazione “Circolo Italia” a Rho. Altri aspetti noti agli esecutori erano rappresentati dall’autovettura della vittima e l’ubicazione esatta della sua abitazione. De Castro quella sera avrebbe raggiunto casa di Massimo Rosi insieme alla sua famiglia. Il resto lo ricostruisce il gip nell’ordinanza, partendo da un punto: il locale di ‘ndrangheta di Rho ed il suo capo storico erano da sempre contigui e alleati con quello di Legnano e Lonate Pozzolo, all’epoca capeggiata da Vincenzo Rispoli quest’ultimo, da sempre, legato ai Gallace.
Come ricostruito dagli inquirenti, dunque, Vincenzo Gallace avrebbe chiesto l’appoggio di Rispoli e Sanfilippo che, materialmente, si occuparono dell’esecuzione dell’omicidio. Sanfilippo, legato a Vivaldo da un rapporto di “comparatico”, essendo il padrino di battesimo del figlio di quest’ultimo, fornì le informazioni necessarie al rintraccio ed al monitoraggio della vittima. Così Rispoli avrebbe incaricato alcuni affiliati al locale da lui cappeggiato di commettere l’omicidio: Emanuele De Castro, Massimo Rosi e Stefano Scatolini (quest’ultimo non formalmente affiliato ma da sempre vicino al sodalizio) mentre Bruno Gallace – fratello di Vincenzo – si sarebbe occupato di reperire le armi che sarebbero state utilizzate per l’omicidio. Rosi, De Castro e Scatolini, dopo aver rintracciato Vivaldo nei pressi della sua abitazione, di rientro con la sua vettura, lo hanno ucciso proprio davanti casa, durante le operazioni di parcheggio. (g.curcio@corrierecal.it)

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